Si sapeva da tempo che, in assenza di una decisione in senso contrario del governo italiano, il 2 novembre sarebbe scattato il rinnovo automatico del memorandum d’intesa in materia migratoria, sottoscritto il 2 febbraio 2017 dal Presidente del Consiglio Paolo Gentiloni e dal Presidente del Consiglio Presidenziale di Tripoli, Fayez Mustafa Serraj. Si sapeva da tempo, ma la politica sembra essersene accorta solo a pochi giorni dalla scadenza, o forse qualcuno sperava in una dimenticanza generale, che permettesse un rinnovo tacito e in sordina.
Gli strumenti normativi e materiali per dare continuità alla cooperazione in materia migratoria con le autorità libiche erano già stati discretamente predisposti, all’interno del processo di rifinanziamento annuale delle missioni internazionali. In particolare, la dotazione finanziaria per sostenere direttamente l’esecuzione degli accordi con Tripoli è rappresentata dai 50 milioni di euro stanziati per il rinnovo della missione bilaterale di assistenza e supporto in Libia (MIBIL). Ma questa missione di polizia si inserisce in un quadro più ampio in cui rientra l’operazione militare “Mare Sicuro”, che accanto a compiti prettamente militari (per esempio, legati alla protezione delle piattaforme petrolifere dell’ENI in acque internazionali), fornisce un sostegno tecnico e di intelligence alle attività di controllo svolte dalla Guardia costiera libica (per un quadro dettagliato, si vedano le schede tecniche allegate alla Relazione del Governo sulle missioni internazionali in corso).
Per scongiurare l’eventualità di un rinnovo automatico dell’accordo del 2017, 26 organizzazioni della società civile raccolte nel Tavolo Asilo hanno fatto un tentativo in extremis, inviando una lettera aperta al Governo e al Parlamento. Vi si chiedeva l’annullamento immediato del memorandum d’intesa, sulla base di argomenti sia umanitari che giuridici.
Sul piano umanitario, si denunciava come “in numerosi e documentati casi la Guardia costiera libica non abbia risposto alle richieste di soccorso, abbia abbandonato in mare persone ancora in vita o sia intervenuta esercitando violenze sui naufraghi o addirittura causando incidenti mortali”. Ne è derivata una forte crescita del tasso di mortalità che ad oggi, secondo le stime UNHCR, risulta quadruplicato rispetto al periodo corrispondente del 2017: una vittima documentata ogni undici arrivi, contro una su quaranta prima dell’entrata in vigore degli accordi di due anni fa.
Per chi viene “salvato” dai libici, il destino non è migliore. “Al 30 settembre 2019 – denunciavano ancora le associazioni firmatarie – il 58% delle persone partite dalla Libia sono state riportate forzatamente nell’inferno libico”. Costoro vengono sistematicamente condotti in quelli che – come documentano ormai numerosi atti ufficiali a diversi livelli, dalle Nazioni Unite alla magistratura italiana – non sono luoghi di mera detenzione, ma di sequestro a scopo di estorsione e di tortura.
Sul piano giuridico, sostenevano ancora i firmatari della lettera, la delega in bianco alle autorità libiche dà luogo a respingimenti di fatto “analoghi a quelli per i quali l’Italia è già stata condannata dalla Corte europea dei diritti dell’uomo nel 2012”.
I fatti denunciati nella lettera aperta non sono nuovi e sono, purtroppo, ben noti. Ma non sembrano sufficienti a scuotere le istituzioni italiane, né peraltro quelle di Bruxelles o di alcun altro stato europeo, da un plumbeo senso di apatia e ineluttabilità. Ufficialmente, ridare effettività all’obbligo di salvataggio in mare e al divieto di respingimento è una priorità. Nella lettera di missione con cui la neo-Presidente della Commissione europea fissa il mandato della Commissaria designata per gli Affari interni, Ylva Johansson, si legge per esempio “Dovrai lavorare a un nuovo, più sostenibile, affidabile e permanente sistema di ricerca e soccorso, che sostituisca le attuali soluzioni ad hoc”.
Ma nessuno sembra crederci davvero; al contrario, Bruxelles pare aspettarsi, e tacitamente invocare, che il memorandum italo-libico venga rinnovato senza troppo clamore: non ci potremmo permettere che quella toppa nella fragile diga della politica UE per la gestione dei flussi migratori, la seconda dopo l’accordo con Erdogan del 2016, venisse rimossa.
I partiti di maggioranza al parlamento europeo, di cui la nuova Commissione è espressione, sono paralizzati dalla paura delle urne, ravvivata ad ogni tornata elettorale. La percezione delle forze politiche tuttora chiamate mainstream (anche se, oggettivamente, lo sono sempre meno) è che non ci si possa opporre a un presunto Zeitgeist. Che dunque non convenga, o addirittura non sia possibile, spezzare la catena delle deleghe, sempre più lunga e opaca, che trasferisce l’onere e la responsabilità del lavoro sporco di deterrenza migratoria sempre più a sud, dalla Germania all’Italia, da noi alla Libia, e poi ancora giù, fino al Niger, al Mali e così via.
Rompere questa catena – che peraltro non basta a rassicurare gli elettorati e in compenso indebolisce la posizione europea, esponendola a continui ricatti – è un compito immane, che richiede coraggio, lucidità e risorse all’altezza. Ma rinnovare l’accordo con Tripoli – seppure con modifiche (come promesso vagamente dal ministro degli Esteri in un question time alla Camera, il 30 ottobre scorso) – non allontanerà l’Italia da questa terribile frontiera, né ci salverà da un destino, sempre incombente, di stato-cuscinetto.
L’unica chance strategica è allora forse quella di assumere in pieno la nostra responsabilità geopolitica, ponendoci come avanguardia europea, ma in forme più graduali e meno avventate di quanto venne fatto nel 2013, con il lancio dell’Operazione “Mare Nostrum”. Un primo passo avrebbe potuto essere quello di sospendere il rinnovo degli accordi con la Libia, portando con forza la questione migratoria sul tavolo di una conferenza internazionale ormai sempre più urgente. Ad accordi ormai rinnovati, invece, il rischio è che l’Europa torni a far finta di niente, lasciandoci a gestire la frontiera più letale del mondo più o meno da soli.