L’adesione ai principi dell’Unione Europea non è più scontata di questi tempi. Gli europeisti sono sfiduciati e frustrati. Gli euroscettici sempre più baldanzosi. Qualcuno comincia a pensare che si starebbe meglio “senza Bruxelles”, o quantomeno senza l’apparato di regole, istituzioni e politiche comuni che abbiamo costruito attorno al mercato unico.
Possibile? In linea teorica, assolutamente sì. Esiste un modello alternativo di organizzazione dello spazio europeo, basato sulla libera interazione/competizione fra Stati, che potrebbe tranquillamente rimpiazzare l’integrazione sovranazionale. Si chiama “balance of power”, ed è stato per secoli il principio regolatore dell’ordine continentale. Prima di auspicarne il ritorno, bisogna però avere ben presenti le sue implicazioni. Tre casi dell’attualità internazionale ci aiutano a metterle a fuoco. Un paio interessano l’Italia.
Il primo caso riguarda la frontiera irlandese. L’accordo del “Good Friday” del 10 aprile 1998 ha riportato la pace in Irlanda del Nord, dopo anni di guerra civile a bassa intensità. Ma ciò che lo ha reso politicamente sostenibile è stato innanzitutto la virtuale abolizione della frontiera con la Repubblica d’Irlanda. Le comunità sui due lati del confine sono state di fatto riunificate, se non sotto il profilo dell’appartenenza statale, quantomeno ai fini pratici. Nessuna frontiera da attraversare, nessuna separazione, nessun simbolo esterno della sovranità britannica e, di conseguenza, nessun bersaglio contro cui organizzare azioni dimostrative. Una soluzione “post nazionale” resa possibile dalla comune appartenenza alla UE. Quella fra nord e sud dell’isola è infatti una frontiera interna dell’Unione. Basta qualche accorgimento pratico per renderla del tutto invisibile.
La Brexit rischia però di complicare l’operazione. Quando Londra non sarà più parte dell’Unione Europea, il confine irlandese tornerà a essere un confine internazionale. In teoria, con tanto di controlli doganali. Sono in molti a temere che ciò possa riattizzare le vecchie contrapposizioni settarie.
Il secondo caso è quello del doppio passaporto per gli abitanti di lingua tedesca dell’Alto Adige. Una brillante alzata d’ingegno della coalizione conservatrice-populista andata al potere a Vienna.
L’Alto Adige-Südtirol è un modello di buona gestione del rapporto fra maggioranza e minoranza all’interno di un Paese. Ma è anche la riprova dei benefici dell’integrazione europea. Gli altoatesini possono attraversare senza problemi la frontiera e mantenere i contatti con i loro cugini del Tirolo austriaco. Si considerano parte di una collettività più ampia – la “casa comune europea” – e non percepiscono minacce alla propria identità. Ciò consente loro di non sentirsi un “corpo estraneo” all’interno dello Stato italiano.
E’ un caso felice di superamento dell’”imperativo territoriale” che ha dominato per secoli la politica europea. Se le frontiere diventano irrilevanti, non è più tanto importante vivere da una parte o dall’altra. E non è più tanto importante piantare una bandiera qualche chilometro più in là. E’ lo stesso fenomeno che ha consentito all’Italia, alla Croazia e alla Slovenia di sviluppare, soprattutto dopo l’adesione di queste ultime alla UE, delle eccellenti relazioni, gettandosi alle spalle i sospetti e le rivendicazioni del passato.
Se viene meno la prospettiva europea il quadro si complica. Le differenze non possono più essere diluite in un contesto più ampio. Riaffiorano identità ed egoismi più o meno sacri e con loro i nazionalismi e le ostilità. Le tensioni fra Italia e Austria, con tanto di scoperta delle diverse letture che i due Paesi danno del Risorgimento (che sorpresa!), sono un’anticipazione di quello che potrebbe (tornare a) essere la politica continentale se tramontasse il progetto europeo.
Il terzo caso riguarda la gestione dell’immigrazione. Il Presidente del Consiglio Giuseppe Conte, il Vice Presidente Matteo Salvini e il Ministro degli Esteri Enzo Moavero hanno ragione a lamentarsi della solitudine in cui è stata lasciata l’Italia negli ultimi anni. Ma se l’Europa non è riuscita a mettere in piedi una politica migratoria degna di questo nome lo si deve soprattutto all’ostruzionismo dei Paesi di Visegrad. A cominciare dall’Ungheria di Viktor Orban.
Questo è un po’ il paradosso del sovranismo. Se si mettono prima gli italiani, prima gli ungheresi, prima i francesi, i lussemburghesi o i lituani, e se tutti rifiutano di fare un piccolo sacrificio per il benessere collettivo, diventa molto difficile costruire qualcosa assieme. Si finisce inevitabilmente col guardarsi in cagnesco. E col mettersi in competizione anche quando sarebbe più saggio collaborare. Le accuse reciproche, le recriminazioni e lo scaricabarile degli ultimi mesi sembrano confermarlo.
Questi scorci di una possibile Europa “post-UE” dovrebbero servirci da campanello d’allarme. Il progetto europeo è nato per dissolvere i conflitti nazionali in un’appartenenza più ampia; per creare, se non un’identità condivisa, quantomeno una certa fiducia reciproca; per cercare soluzioni collettive ai problemi comuni. Nel bene e nel male, è riuscito a centrare quasi tutti gli obiettivi. Oggi forse desta insofferenza, ma l’alternativa potrebbe essere molto peggiore.