L’Europa è piena di programmi e di buone intenzioni per quanto concerne le politiche ambientali. Nell’ultimo quindicennio sono stati messi nel piatto decine di miliardi di euro ogni anno, si stima sui 60-70, per rispettare il Protocollo di Kyoto e soprattutto per sussidiare le energie rinnovabili. Non provenienti dal bilancio europeo, ma dalle tasche dei consumatori, ma fa lo stesso.
Minor interesse è stato invece rivolto al risparmio energetico, nonostante fosse e sia molto più conveniente. È stato approvato un ambizioso programma di implementazione della cosiddetta economia circolare (meno spreco di materie prime e riuso di quelle già utilizzate). Sono stati stabiliti obiettivi importanti di riduzione della CO2 per combattere i cambiamenti climatici e l’Europa non fa mancare in ogni sede internazionale la propria voce a favore delle cause ambientali.
Da più di un decennio insomma l’Europa ha deciso di assumere, in modo unilaterale rispetto ai suoi concorrenti, una forte leadership mondiale nelle politiche ambientali, facendone uno dei punti distintivi dei propri programmi e della propria identità internazionale. La nuova presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, ha rafforzato questa tendenza, annunciando immediatamente dopo la sua nomina l’intenzione di stanziare risorse consistenti a favore dell’ambiente.
L’IRRILEVANZA DELLO SFORZO EUROPEO. Tutto bene quindi? Purtroppo no. E per una ragione molto semplice. Le decisioni europee hanno un impatto quasi nullo sugli equilibri ambientali mondiali.
I dati che anno per anno vengono raccolti dalle varie agenzie internazionali non lasciano dubbi. Fino a oggi la lotta ai cambiamenti climatici a livello mondiale ha prodotto più o meno risultati zero. Dopo una stabilizzazione di pochi anni le emissioni hanno ripreso a crescere a ritmi sostenuti, paradossalmente dopo la sottoscrizione dell’Accordo di Parigi del dicembre 2015, così come i consumi di energia.
Il contributo delle fonti fossili (carbone, gas, petrolio) è rimasto costante negli ultimi vent’anni. Nel 2018, copre circa l’85% dei consumi totali primari di energia, contro il 4% delle nuove rinnovabili (solare ed eolico) e il 65% nella generazione elettrica contro il 7%. Il contributo di ogni singola fonte fossile alla produzione di CO2 è aumentato in termini assoluti. Mentre si auspica la fine dell’era del petrolio i consumi di questo combustibile hanno sfondato la soglia dei 100 milioni di barili al giorno. Le previsioni dell’Agenzia internazionale dell’Energia lo danno in aumento costante oltre i 120 milioni di barili al giorno nonostante lo scenario ipotizzato preveda una massiccia diffusione dell’auto elettrica.
L’Europa ha fatto la sua parte, ma il suo contributo è risultato irrilevante. Se non avesse operato per una riduzione delle sue emissioni, la variazione nelle emissioni totali sarebbe aumentata solo dello 0,1% (!). In termini economici il gioco non è valso la candela, mentre risultati molto molto superiori si sarebbero ottenuti se le risorse impiegate fossero state destinate ai paesi poveri che pagano il maggior costo dei cambiamenti climatici essendone i meno responsabili.
Qual è quindi il punto? I cambiamenti realizzatisi nell’economia mondiale degli ultimi decenni hanno ridotto in modo costante il peso dell’economia europea e di conseguenza la sua quota di emissioni inquinanti. Anche tenendo conto del fatto che le economie europee presentano già margini di efficienza (unità di energia necessaria per produrre un’unità di pil) piuttosto elevati. Di conseguenza, ulteriori miglioramenti appaiono marginalmente sempre più difficili e costosi. Il contributo totale dell’economia europea alle emissioni di CO2 è già intorno al 10% e le previsioni sono di una riduzione al 6%-7%. È facile quindi calcolare quanto poco conterà in futuro sul totale delle emissioni mondiali ogni riduzione operata in Europa.
I grandi player anche in questo campo stanno altrove. Uno di essi è certamente gli Stati Uniti d’America, dei quali basti dire che sono diventati nell’arco di un decennio i principali produttori di gas e petrolio grazie alle nuove tecnologie shale. Con l’aggiunta della protezione assicurata da Trump ai produttori di carbone, parte consistente dell’elettorato sottratto ai democratici. Inutile inoltre sottolineare la scarsa convinzione ambientale dell’attuale amministrazione americana, senza la quale l’implementazione e la forza dei grandi accordi internazionali sono ovviamente ridotte.
Il secondo grande player, ma prima per emissioni totali, è la Cina. La quale si nasconde dietro una discreta cortina fumogena, illudendo il mondo grazie ai numeri impressionanti che presenta per investimenti nelle energie rinnovabili nel nucleare e nello sviluppo dell’auto elettrica. Numeri che però non possono celare la continua espansione dei combustibili fossili nella produzione di energia elettrica e nei trasporti, conseguenza della continua crescita economica di quel paese. In posizione ancora più debole stanno economie importanti per la loro crescita e il loro quasi inesauribile fabbisogno di energia come l’India. Gli sforzi europei, quindi, corrono il rischio di apparire come una goccia in un mare tempestoso.
NUCLEARE ED EFFICIENZA, ELEMENTI IMPRESCINDIBILI. Come ha bene sottolineato Alberto Clò su Rivista Energia (7 agosto 2019) di fronte a questa accertata carenza di risultati le risposte della politica, anziché prendere atto del peggioramento della situazione e porvi rimedio, è stata quella di fissare obiettivi sempre più ambiziosi spostandone in avanti i tempi (dal 2030 a 2050) dati in pasto all’opinione pubblica.
Insomma, si festeggiano i traguardi sempre più lontani nel tempo e mai ovviamente gli scarsissimi risultati acquisiti. La scienza delle previsioni, come tutti sappiamo, è assai ardua. Ipotizzare scenari al 2050 può servire per capire (o augurarsi) la direzione di marcia, ma 3 decenni sono oggi una distanza enorme. Servirebbe invece un bilancio critico che indaghi accuratamente quali siano le ragioni per le quali a fronte di notevoli stanziamenti (e di molte chiacchiere) si sia ottenuto ben poco.
Due punti andrebbero per esempio sottolineati. La crescita delle rinnovabili non ha intaccato, almeno fino a ora, se non marginalmente, il predominio dei combustibili fossili. È avvenuta invece a scapito della quota di energia elettrica prodotta dal nucleare, travolto dalla crisi post Fukushima e dai costi sempre più alti dovuti alle misure stringenti in materia di sicurezza. Ma il nucleare è fra le grandi e costanti fonti di energia elettrica l’unica priva di emissioni di CO2. Cosicché i benefici della crescita di una fonte sono stati annullati dalla riduzione dell’altra. Sino a spingere l’Agenzia Internazionale dell’Energia a dovere riconsiderare tutta la materia auspicando un mutamento di rotta nei paesi occidentali giacché in quelli asiatici e in Russia il nucleare è previsto crescere non di poco. Comunque: il nucleare non sarà la risposta ai cambiamenti climatici, ma senza il nucleare essi non avranno risposta.
Il secondo punto ha a che fare con l’ancora scarsa efficienza dei grossi impianti di produzione termoelettrica dei paesi meno sviluppati. Dove invece un miglioramento di qualche punto di efficienza produrrebbe risultati consistenti. Ma la politica e l’opinione pubblica preferiscono ciò che è “sexy”, leggi rinnovabili, piuttosto che riconsiderare alcune scelte sull’energia nucleare o mettere le mani sugli impianti a carbone, destinati ormai, secondo la vulgata, a scomparire. Romano Prodi ci ricordava poco tempo fa che sono in costruzione in tutto il mondo migliaia di nuovi impianti a carbone. Vedasi il caso Germania, che aumenta le proprie emissioni di CO2 continuando a bruciare carbone nella generazione elettrica (circa 40% del totale) mentre riduce la produzione nucleare.
LA NECESSITÀ DI UN’ANALISI CRITICA. Una delle motivazioni apportate a sostegno delle politiche europee è relativa alla capacità propulsiva che esse potrebbero avere dal punto di vista dell’innovazione, della conquista da parte dell’Unione Europea di posizioni di leadership in alcuni settori industriali e dai benefici sociali che ne derivano. Primo teorizzatore di questa impostazione fu Schröder all’epoca del primo governo rossoverde (per divenire poi manager alle dipendenze di Vladimir Putin). Benefici sociali certo ve ne sono soprattutto in termini di occupazione. Resta da definire, visto che derivano prevalentemente da una maggiore pressione fiscale sui prezzi dell’energia, se siano pari, maggiori o minori alle alternative possibili. Se cioè questa spesa sia stata veramente efficiente.
Ma il punto principale è il secondo. Fino a oggi l’Europa non ha conquistato posizioni decisive nell’innovazione legata alle nuove tecnologie energetiche. La Cina in compenso è divenuta la prima esportatrice di pannelli fotovoltaici, finanziati dagli incentivi europei, con l’Italia in prima linea. E sui nuovi motori ibridi o elettrici la leadership è giapponese o americana. Ora si cerca di correre ai ripari con vari progetti, per esempio sulle batterie per autotrazione.
In sintesi, occorrerebbe una seria analisi critica delle esperienze fin qui fatte, dei punti positivi e di quelli negativi. Un’analisi dell’efficienza dei soldi impiegati e delle alternative possibili. Una valutazione sulla capacità effettiva delle diverse tecnologie di ridurre la quantità di co2, anziché sulla loro attrattività per l’opinione pubblica.
Può darsi che decisivi e non completamente prevedibili salti tecnologici ci facciano fare passi avanti inattesi. Speriamo. Ma la sottovalutazione di quanto avviene “nel frattempo” non è di buon auspicio.