Emmanuel Macron era al secondo appuntamento del suo tour di “ascolto del territorio” quando ricevette uno schiaffo in pieno volto da un uomo che lo attendeva in una cittadina poco a sud di Lione. Era il 9 giugno. Il ventottenne autore del gesto è stato subito preso, processato e nel giro di due giorni condannato a un anno e mezzo di prigione, privato dei diritti civili per cinque anni. Ma tra il 20 e il 27 giugno un altro schiaffo è arrivato al Presidente francese – e non solo a lui: quello delle elezioni regionali e dipartimentali.
Una brutta sconfitta per i candidati del partito di Macron, che hanno perso otto ballottaggi sugli otto in cui partecipavano – spesso arrivando terzi o quarti, perché quei ballottaggi non sono limitati a due candidati. Ma è una brutta sconfitta anche per chi era considerata la sfidante numero uno del presidente uscente: il partito di Marine Le Pen ha fallito la spallata. Per l’ennesima volta, nessuna regione vinta, e una sconfitta netta anche in quella che era considerata alla portata, la Provenza-Alpi-Costa Azzurra, dove il candidato lepenista è stato superato 57/43% al ballottaggio da quello della destra tradizionale. Infine, una brutta sconfitta per tutta la classe politica: solo il 34% dei francesi è andato a votare, un dato mai visto da quando esistono le regioni.
Alle municipali dello scorso anno l’astensione sfiorò il 60%, ma del dato eclatante si dette la colpa al coronavirus. Ma osservando la tendenza storica, si nota un’avanzata progressiva e inesorabile, trentennale, della non partecipazione al voto alle elezioni comunali, regionali e legislative. Visto che la tendenza non riguarda invece le presidenziali, né le europee, il fenomeno di lunga durata potrebbe rivelare un effetto svuotamento della politica sia territoriale che parlamentare da parte del semi-presidenzialismo francese, che accentra tutti i poteri e le decisioni a livello del Presidente e dell’esecutivo: non ci si scomoda per delle elezioni inutili.
Qualcuno, tuttavia, può sorridere: si tratta della destra e della sinistra tradizionali, che tornano sulla mappa politica francese come dei revenants, dopo che l’avvento di Macron e la crescita dell’estrema destra le avevano fatte dare per morte. La destra guidata dai “Repubblicani”, partito-filiazione della forza politica degli Chirac, dei Raffarin, dei Villepin, dei Sarkozy e dei Fillon, vince in sette regioni della Francia metropolitana, tra cui le più importanti; la sinistra guidata dai socialisti con l’apporto dei verdi conserva le sue cinque, più tre oltremare. Gli autonomisti di Femu a Corsica si confermano alla guida dell’isola, ma anche in tutte le altre regioni i governanti uscenti vengono rieletti, con l’unica eccezione dell’isola della Réunion, che passa da destra a sinistra, e della Guyana.
Come sempre, in Francia le regionali vengono considerate non un antipasto ma piuttosto un aperitivo delle presidenziali che da calendario si tengono uno o due anni dopo, in questo caso a maggio del 2022, per le indicazioni parziali che possono dare. Ad esempio, la vittoria del socialista François Hollande contro l’uscente Nicolas Sarkozy nel 2012 fu preceduta da un’indimenticabile tornata regionale (indimenticabile per la sinistra) in cui i candidati socialisti o associati vinsero 20 regioni su 21. Nel 2015 erano ancora la destra e la sinistra a spartirsi le 13 regioni metropolitane francesi (le vecchie 21 erano state accorpate da una contestatissima legge): e da quel risultato non si poteva certo prevedere che due anni dopo, al ballottaggio presidenziale, gli sfidanti sarebbero stati Emmanuel Macron e Marine Le Pen.
E’ proprio questo il punto: è un voto locale, siamo andati male, ma nel 2022 Macron sarà rieletto con tranquillità, ripetono rintuzzando le accuse di “Waterloo elettorale” i portavoce del presidente. Non hanno tutti i torti, anche se tra i tanti dati ce n’è uno che dovrebbe suonare più preoccupante degli altri: la disfatta della “macronia” nella regione parigina. In Ile-de-France si riconferma senza problemi la governatrice di destra Valérie Pécresse, ma il candidato macronista Laurent Saint-Martin arriva quarto, dietro pure a quello lepenista, bissando lo smacco delle municipali parigine dello scorso anno vinte da Anne Hidalgo. E’ un problema per Macron se la regione parigina, suo serbatoio di voti alle presidenziali del 2017, continua a sfornare leader per l’opposizione di destra e di sinistra: soprattutto se l’attuale Presidente, in un eventuale ballottaggio nel 2022, dovesse affrontare non l’estremista Le Pen, molto impopolare attorno a Parigi, ma un candidato meno indigesto all’elettorato della regione più popolosa di Francia.
Fare previsioni per il ballottaggio delle prossime presidenziali può essere solo un esercizio di ginnastica demoscopica. Anche nel 2017, l’anno del “trionfo” di Macron, al primo turno i primi quattro candidati finirono tutti in una piccola forchetta: Jean-Luc Mélenchon al 19,6%, François Fillon al 20%, Marine Le Pen al 21,3% e Emmanuel Macron al 24%. Differenze minime, che potrebbero essere ribaltate da un soffio di vento, soprattutto quando l’astensione supera il 60% e sette francesi su dieci dichiarano di volere volti nuovi per la nuova sfida.
Macron e Le Pen, che per i sondaggi sono in testa, non sono di certo volti nuovi. Non lo è nemmeno Mélenchon, che tornerà a candidarsi con La France Insoumise, come “indomito” campione dell’estrema sinistra. Tocca ora i partiti vincitori delle amministrative, Repubblicani da una parte e Socialisti e Verdi dall’altra, estrarre dal cappello un coniglio che piaccia all’opinione pubblica. A sinistra, la sindaca di Parigi Anne Hidalgo è già in campo: ma senza il sostegno diretto dei Verdi, è facile prevedere che la sua candidatura vada a infrangersi sugli scogli dell’eccessiva frammentazione delle forze progressiste. Il leader dei Verdi, Yannick Yadot, ha detto di volersi candidare anche lui, sebbene gli ecologisti abbiano collezionato alle presidenziali solo disastri finora; Hidalgo a Parigi ha saputo costruire alleanze vincenti inclusive di tutto il fronte progressista, e dovrà riuscirci anche stavolta se vorrà avere qualche speranza di salire all’Eliseo.
La destra di ispirazione sarkozista, chiracchiana e gollista resta un contenitore di formidabili conoscitori e “abitatori” della politica francese. I suoi esponenti hanno resistito alla fine della parabola di Sarzoky, caduta nelle aule di giustizia, alla marea di Macron, dentro la quale si sono incuneati, al dissenso sociale diffuso, da cui continuano a emergere nelle amministrazioni locali grazie alla capacità di fare squadra. Oggi contano almeno tre possibili candidati presidenziali tra i vincitori delle regionali: Xavier Bertrand in Alta Francia (Calais, Nord, Piccardia), Laurent Wauquiez in Alvernia-Rodano-Alpi, uno dei territori più ricchi e produttivi d’Europa, e Valérie Pécresse in Ile-de-France. I Repubblicani decideranno a novembre, ma di fronte alla possibilità che troppi galli finiscano per spennarsi a vicenda non è da escludere la scelta di un nome esterno di sintesi, magari Michel Barnier, il negoziatore dell’Unione Europea ai tavoli della Brexit, e protagonista delle battaglie degli ultimi mesi tra gli interessi economici continentali, ma spesso e volentieri francesi, e quelli britannici.
La battaglia presidenziale tra cinque candidati di risonanza nazionale lascerà sicuramente qualche nome illustre sul tappeto. Ma ciò significa anche che potrebbe bastare un risultato non enorme, attorno appunto al 20%, per passare al secondo turno: e questo dato moltiplica il numero dei pretendenti.
Tra questi resta ancora Marine Le Pen. Le regionali non le hanno portato nemmeno una gioia: i sondaggi del primo turno vedevano i suoi in testa in sei regioni, ma alla fine è stata solo una, la Provenza-Alpi-Costa Azzurra, persa malamente al ballottaggio. Il Rassemblement National da lei fondato continua ad avere un serbatoio di voti importante, ma non riesce a diminuire il numero di persone che voterebbero chiunque altro piuttosto che vederli vincere. Nel 2022 ci sarò io, non il mio partito, dice Marine, impegnata da mesi a presentarsi come una novella Charles De Gaulle, unificatrice di una Francia scorata, fratturata, indecisa. Indecisa o no, comunque, per le presidenziali non sarà una minoranza ma la maggioranza dei francesi a prendere la parola.