Il voto presidenziale in Brasile che lascia il Paese diviso

“È stata la campagna elettorale più difficile della mia vita” gridava Lula all’immensa folla che, appena accertata la vittoria elettorale, si era riversata sull’Avenida Paulista, nel centro di San Paolo, C’è da credergli. La differenza di voti tra lui e il rivale, il presidente uscente Jair Messias Bolsonaro, è stata la più stretta mai registrata da quando il Brasile è tornato ad essere una democrazia: 50,9% dei voti validi contro 49,1%. Vittoria all’ultima curva, se si pensa che Bolsonaro è stato capace di ridurre la distanza da 6,2 milioni di voti al primo turno ad appena 2,1 milioni, in un paese di 156 milioni di elettori.

Lula saluta i suoi sostenitori alla vigilia delle elezioni, a Sao Paulo. Molti di loro si identificano con elementi di abbigliamento di colore rosso.

 

Con un tasso di astensione di circa il 20%, cioè 32 milioni di voti, si può affermare con qualche approssimazione che i dieci milioni di voti che al primo turno erano andati ad altri candidati, Bolsonaro ne abbia conquistati circa sette, mentre Lula solo tre. In effetti, Lula non è riuscito a strappare la maggioranza dei voti in nessun municipio vinto da Bolsonaro al primo turno, mentre Bolsonaro è riuscito ad aumentare i suoi voti fino al punto di rimontare su Lula in uno stato federato (Amapá) e in 248 municipi, cioè il 4,5% dei 5.570 municipi brasiliani.

Nessun sondaggio tra il primo e il secondo turno aveva lasciato intravedere la possibilità di un recupero così sostanzioso. Tuttavia, questa gigantesca crescita non è stata sufficiente per la “virada” in cui speravano i suoi sostenitori. Bolsonaro passerà alla storia come il primo presidente brasiliano incapace di farsi rieleggere per un secondo mandato; Lula, invece, come l’unico ad averne conquistato un terzo.

La composizione regionale del voto mostra una frattura elettorale abbastanza evidente all’interno del territorio brasiliano. Bolsonaro stravince nel Centro-ovest (4 stati, 11,5 milioni di elettori, circa il 7,4% dell’elettorato); vince in uno e stravince in due dei tre stati della regione Sud (22 milioni, 14,2%); vince in tre dei quattro stati del Sudest, la regione più ricca e popolata del paese (67 milioni, 42%, incluse le due metropoli Sao Paulo e Rio de Janeiro), dove Lula conquista solo Minas Gerais. Bolsonaro vince in uno e stravince in tre dei sette stati del Nord amazzonico (12,5 milioni, 8%) dove Lula ottiene per pochi voti la maggioranza nei restanti. Infine, Lula trionfa letteralmente nella regione povera del Nordest (nove stati, 42 milioni, 27%) dove conquista 12,6 milioni di voti in più di Bolsonaro: sono questi a garantirgli la vittoria.

 

La partita dei Governatori

Assieme alle presidenziali si tenevano anche le elezioni per i governatori degli Stati, e i loro risultati sono paragonabili. Nei 27 stati della federazione il campo lulista ha eletto 11 governatori mentre quello bolsonarista 14. L’allineamento dei due governatori restanti (Rio Grande do Sul e Pernambuco) è ancora abbastanza indefinito. I governatori alleati di Bolsonaro dominano le regioni Sud, Sudest e Centro-Ovest (con l’eccezione di Espírito Santo) mentre i lulisti dominano il Nordest, a parte il Pernambuco. Ma il dato più spinoso per il presidente eletto è che 5 dei 6 stati più popolati e più ricchi del Brasile (52% della popolazione, 63% del PIL) hanno eletto governatori non del suo campo, mentre il lulismo ha riportato una sola vittoria, peraltro storica, a Bahia.

Sarebbe quindi facile concludere che il Nordest povero abbia fatto la vera differenza e portato per la terza volta Lula alla presidenza. C’è del vero, ma è un’affermazione che va rifinita. In primo luogo, c’è un’ulteriore diversificazione tra aree interne e aree centrali che porta a fratture in una buona parte degli stati federati. Ma soprattutto, è la stragrande maggioranza dei poveri di tutto il Brasile, non solo del Nordest, ad aver portato Lula alla presidenza. Ricordiamo infatti che l’esito elettorale presidenziale brasiliano viene dato dalla somma assoluta dei voti validi, e non dai risultati elettorali dei singoli Stati – come ad esempio accade negli USA: ogni voto conta allo stesso modo.

 

Fratture di classe

Non si dispone al riguardo che di inchieste demoscopiche realizzate a ridosso del secondo turno, ma queste sono abbastanza chiari. Lula domina tra l’elettorato nelle prime due fasce di reddito (meno di due salari minimi, circa la metà dell’elettorato: i poveri, gli informali e gli strati inferiori della classe operaia). Bolsonaro ha una lieve maggioranza tra chi riceve da due a cinque salari minimi (strati medi e alti della classe operaia, strati bassi della classe media, piccola imprenditoria, circa un terzo dei brasiliani si trova in questa condizione), mentre vince facile nelle fasce benestanti tra i cinque e i dieci salari minimi che rappresentano il 10% degli elettori, dove registra il maggior distacco su Lula. Infine, curiosamente, Lula vince, anche se di misura, tra chi ne guadagna oltre dieci: il 4% più ricco della popolazione.

Queste fratture elettorali di classe suggeriscono quattro osservazioni di fondo: in primo luogo, dimostrano ancora una volta che l’essenza del “lulismo” sta nel sostegno politico dei brasiliani più poveri. In secondo luogo, che il partito di Lula (Partido dos Trabalhadores, PT) continua a perdere egemonia tra gli strati medi e alti della classe operaia e tra gli strati bassi della classe media. In terzo luogo, che la maggioranza dell’alta borghesia che aveva sostenuto Bolsonaro nel 2018 gli ha in parte voltato le spalle nel 2022, per avere destabilizzato l’ordine istituzionale e approfondito la crisi economica, accettando Lula quale unica opzione possibile nelle condizioni date. Infine, che il bolsonarismo ha una buona possibilità di sopravvivere alla sconfitta elettorale del suo capo e consolidarsi in un movimento reazionario di massa, a partire dalla sua egemonia nella classe media.

Bolsonaro con i suoi supporter. Molti di loro indossano la casacca gialla della Seleçao.

 

Indagare quest’ultimo scenario risponde anche all’esigenza di capire come mai, pur di fronte ad una condizione disastrosa dell’economia e a una gestione scellerata della pandemia, il presidente uscente abbia conseguito un risultato così lusinghiero.

Come per ogni fenomeno di natura sociale si dovrebbe scrutinare un ampio numero di fattori, ma si ha anche la possibilità di offrire una sintesi di quelli considerati più rilevanti. A chi scrive sembrano fondamentalmente quattro. In primo luogo, il bolsonarismo ha sottratto ai partiti borghesi storici il grosso del voto conservatore, una parte importante dell’elettorato brasiliano da sempre, e lo ha radicalizzato, soprattutto tra la classe media. Come ci è riuscito? Sta qui il secondo fattore: durante i suoi quattro anni di mandato il bolsonarismo ha continuamente ingaggiato una disputa ideologica con la sinistra per conquistare la maggioranza della classe media: gli strati meno beneficiati dai precedenti governi del PT, in cui l’”antipetismo” si stava già formando come corrente di massa.

Occorre ricordare che, durante i due mandati Lula e il primo Rousseff, due furono i ceti sociali vincitori netti: i più poveri, a causa del massiccio intervento di politiche redistributive/affermative, e i più ricchi, per il mantenimento delle misure a protezione della rendita finanziaria, innanzitutto i tassi di sconto e di interesse. La crescita economica, la formalizzazione del mercato del lavoro e l’aumento del salario reale avevano sì avvantaggiato anche una buona parte della classe media, ma non nella stessa misura percepita dalle classi più povere, anche perché l’ingresso nella sfera di consumo di queste ultime aveva determinato dinamiche inflattive scontrandosi con l’offerta limitata di beni e soprattutto servizi storicamente usufruiti da settori della classe media, come per esempio l’istruzione e la salute privata. La mancata riforma tributaria, con una possibile riduzione delle aliquote medie e aumento di quelle alte, fu un tassello fondamentale della radicalizzazione anti-PT della classe media.

È su questo scenario di fondo di insoddisfazione della classe media che agende identitarie e populiste come la lotta alla corruzione, all’ “ideologia di genere”, e il rinnovamento/radicalizzazione del trittico “tradizione, famiglia e proprietà” (con l’introduzione della battaglia per il diritto di ciascun cittadino a comprare armi da fuoco per proteggersi dai crimini di strada) hanno avuto la possibilità di prosperare.

In terzo luogo, una campagna di disinformazione basata su un uso abnorme di fake news. Secondo Rose Marie Santini, direttrice del NetLab (Laboratorio di Studi su Internet e Reti Sociali) dell’Università Federale di Rio de Janeiro le elezioni del 2022 sono state condizionate da tecniche di comunicazione computazionale e orchestrazione su più piattaforme senza precedenti. “Insinuazioni che staremmo vivendo una guerra religiosa” (dove i cristiani sarebbero una minoranza perseguitata) o “che il sistema elettorale sia oggetto di frode”, sono state tra le narrative che hanno dominato il dibattito, a detrimento di una discussione fattuale su candidati e programmi, soprattutto per accaparrarsi il grosso del voto evangelico.

 

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Infine, il bolsonarismo ha fatto un uso massiccio della macchina amministrativa, in combutta con la maggioranza parlamentare di turno, per il mantenimento di una spesa clientelare che ha assunto dimensioni gigantesche nell’anno elettorale. È nota ormai a tutti in Brasile la vicenda del “bilancio segreto”, ma è bene spiegarla con qualche dettaglio per dimostrarne la rilevanza elettorale. La legge di bilancio è un elemento chiave del cosiddetto presidenzialismo di coalizione alla brasiliana, per le prerogative che deputati e senatori hanno da sempre di chiedere formalmente, attraverso emendamenti, che una parte dei fondi sia stanziata a favore dei propri collegi elettorali. I soggetti titolati a presentare tali emendamenti sono i singoli parlamentari, un gruppo parlamentare, una commissione parlamentare e il relatore della legge di bilancio. Per i primi due soggetti l’autorizzazione era obbligatoria, mentre per gli altri due no. Nel 2021, come parte del dazio imposto dal centrao (il gruppo parlamentare determinante in ogni legislatura, composto da deputati e senatori di partiti senza un chiaro profilo ideologico-programmatico) a Bolsonaro, in cambio del sostegno al governo, il regolamento degli emendamenti viene modificato nel senso di rendere obbligatoria l’autorizzazione dei disborsi richiesti dagli emendamenti del relatore e di rafforzare e rendere altamente discrezionali le prerogative di quest’ultimo, in articolazione coi presidenti di Camera e Senato.

Si è aperto in questa maniera un complesso e non trasparente meccanismo di formazione e presentazione degli emendamenti parlamentari dove è stato permesso anche a non parlamentari di presentare proposte, senza essere obbligati a rivelare i propri padrini politici. L’ammontare della spesa prevista dagli emendamenti del relatore è giunto a circa 16,5 miliardi di reais nel 2022 (circa 3,3 miliardi di euro), a beneficio di 380 deputati, 48 senatori e 1,700 “utenti esterni” (questi ultimi con valori superiori di quelli assegnati ai senatori) stimati alla vigilia delle elezioni. Di questo totale, una parte era già in esecuzione prima del voto, mentre il restante doveva essere sborsata dopo, a dimostrazione del carattere assolutamente elettoralistico della misura.

Oltre al bilancio segreto il governo Bolsonaro ha promosso un progetto di emendamento costituzionale (PEC) con scadenza al 31 dicembre 2022 (anche qui il carattere elettoralistico della misura è più che evidente) per aggirare vincoli di bilancio e finanziarie diverse misure di sostegno ai redditi e ai consumi (assistenza sociale, aiuti su carburante e affitti, trasporto pubblico, condoni fiscali e misure su accise, ecc.). Solo nel periodo elettorale la PEC è costata 68 miliardi di reais (circa 13,5 miliardi di euro).

 

Lo scenario di governabilità e i rapporti di forza nel Congresso

Secondo Leonardo Barreto – dottore in scienza politica all’ Università di Brasilia – durante il mandato di Bolsonaro il parlamento si è così appropriato di prerogative politiche che pur previste dalla Costituzione non erano mai state utilizzate dai parlamentari. Il caso del bilancio segreto mostra come di fatto sia aumentato il potere del Congresso sulla formazione delle leggi di bilancio. In altre parole, per Lula sarebbe ora difficile ristabilire il vecchio presidenzialismo di coalizione che era il modello di governo dei suoi primi due mandati. Lì l’esecutivo controllava il bilancio in cambio di sostegno parlamentare; ora invece ha molta più voce in capitolo, e dipende meno dall’esecutivo per soddisfare la sua base elettorale. Barreto chiama questo nuovo modello “coabitazione”. Altri analisti si spingono a dire che si è entrati in un semi-parlamentarismo di fatto. Un quadro reso ancor più complicato per Lula a causa della nuova composizione politico-ideologica del Congresso, spostato più a destra. Secondo Barreto su 513 deputati almeno 330 fanno parte del blocco di centrodestra, e una parte maggiore di questo è occupato da un’estrema destra ideologica molto recalcitrante a negoziare.

A questo punto, per discutere il quadro sfavorevole a Lula dipinto da Barreto, occorre approfondire lo sguardo sui numeri del nuovo Congresso Nazionale. Adottando una metodologia proposta dalla Folha de Sao Paulo – il più importante giornale del paese insieme all’Estado de Sao Paulo – per identificare le forze parlamentari lungo l’asse sinistra-destra, sembra chiaro che il bolsonarismo abbia conseguito un risultato solido sia alla Camera che al Senato. Per esempio, in entrambe le camere il Partito Liberale del Presidente uscente ottiene il gruppo parlamentare più numeroso.

Ma se l’orientamento dei partiti rispetto al nuovo governo Lula dovesse rispecchiare le dichiarazioni di voto espresse dai leader dopo il primo turno, i numeri sarebbero i seguenti: Alla Camera il bolsonarismo avrebbe 198 seggi tra sostegno esplicito (187) e tendenza al sostegno (11), mentre Lula disporrebbe di 223 (122 + 101). Altri 92 seggi sono più indefiniti. Al Senato (ricordando che il mandato senatoriale dura otto anni ma le elezioni si svolgono ogni quattro, per eleggere alternativamente un terzo e due terzi dei senatori – quest’ultima volta ne sono stati eletti un terzo) il campo bolsonarista avrebbe 24 seggi (23+1) e Lula 35 (11 +24). I seggi senatoriali più indefiniti sarebbero 22. Quindi è sicuramente uno scenario di grande incertezza. Il dato oggettivo è che già nel presidenzialismo di coalizione il governo poteva essere sicuro dei partiti a sostegno esplicito; ma meno delle “tendenze a favore” e molto meno degli indefiniti. Il centrao  si faceva e si disfaceva a secondo degli accordi tra esecutivo e congresso, e Lula non scappò alla regola in passato e non vi scapperà nemmeno questa volta: anzi, per le ragioni esposte il quadro si è reso ancor più complicato.

 

Il nodo della transizione

Al momento in cui si scrive, per cercare di capire se alcune tendenze di fondo della governabilità tra esecutivo e legislativo durante il terzo mandato Lula si stiano già delineando bisogna guardare alle negoziazioni in corso tra l’équipe di transizione del presidente eletto e il governo uscente, e ai primi accenni dei presidenti di Camera e Senato all’equipe di transizione. Va premesso che dal 2002 il presidente eletto ha il diritto di formare un’equipe di transizione con l’obiettivo di conoscere in dettaglio lo stato finanziario dell’unione e degli organi della pubblica amministrazione al fine di preparare i primi atti del nuovo governo, che si insedierà solo a gennaio. Si tratta di cinquanta componenti tra tecnici e politici ai quali i membri del governo uscente sono tenuti per legge a fornire le informazioni richieste e il sostegno tecnico e amministrativo necessario.  Lula ha scelto il suo vicepresidente Geraldo Alckimn come capo dell’equipe, mentre il governo uscente ha nominato come interlocutore Ciro Nogueira, il ministro della Casa Civile (il più importante ministro insieme a quegli economici e di pianificazione).

Il mandato principale dato da Lula all’equipe di transizione è stato quello di assicurarsi le risorse sufficienti per finanziarie il programma minimo redistributivo dei primi sei mesi di governo come enunciato in campagna elettorale: elevare il salario minimo, garantire l’ausilio emergenziale (la vecchia Bolsa Familia di Lula) di 600 reais e altri programmi sociali (farmacie popolari, mense scolastiche, ecc.).

Solo pochi giorni fa si pensava di essere già arrivati ad una soluzione con l’accordo per una PEC che garantisse queste risorse, per un totale di circa 150 miliardi di reais. Il prezzo da pagare era la negoziazione col centrao per far passare la PEC in parlamento, in particolare col presidente della Camera, Arthur Lira, che pretende di essere rieletto durante la prossima legislatura e che aveva ricattato alla stessa maniera Bolsonaro durante la precedente (senza dimenticare che il presidente della Camera è il decisore iniziale del processo di impeachment secondo la costituzione, spettando a lui con decisione monocratica accogliere o respingere ogni richiesta). Contro tale ipotesi hanno sollevato critiche pezzi grossi illustri della base lulista, come il senatore Renan Calheiros (MDB) – principale avversario politico di Lira nello stato di Alagoas e tra i nomi in lista per la presidenza del Senato. Calheiros e il presidente del Senato Rodrigo Pacheco (membro del PSD, partito diviso ma in transizione verso il polo lulista), difendono opzioni alternative per ottenere le risorse necessarie, come per esempio misure provvisorie di credito supplementare al bilancio attuale. Alla fine, come si è premurato di chiarire il leader del PT nella commissione parlamentare mista dell’opposizione, le opzioni sul tavolo “dipendono tutte da un buon dialogo con il Parlamento”. Lula dovrebbe decidere in settimana quale opzione scegliere.

Dopo la vittoria del 30 ottobre è iniziata quindi la sua ultima grande navigazione da presidente, in uno scenario interno segnato da cambiamenti fondamentali del quadro politico e delle condizioni di governabilità: questi saranno il banco di prova delle sue capacità e degli stessi limiti del lulismo come patto sociale per governare il Brasile.

 

 

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