L’ingresso trionfale nel cortile del Louvre, sulle note dell’Inno alla Gioia e il tripudio di bandiere dell’Unione Europea. Era il 7 maggio 2017. All’epoca, la minaccia più grande per l’ordine liberale internazionale era quel Monsieur Trump l’américain, sprezzante nei confronti degli alleati europei e a cui l’allora outsider Emmanuel Macron aveva consigliato umiltà e studio della storia, perché “alle radici del sogno americano c’è il sogno europeo”.
Tutt’altra Parigi, ai piedi della Tour Eiffel, e tutt’altro mondo – a due mesi esatti dall’inizio dell’invasione russa dell’Ucraina – hanno salutato la vittoria del 24 aprile 2022, cinque anni dopo. Ma la costante delle celebrazioni per il bis di Macron all’Eliseo – il primo che riesce a un presidente uscente dai tempi di Jacques Chirac – è ancora una volta l’Europa. Dalla IX sinfonia di Beethoven ai colori dell’Unione, i simboli sono rimasti intatti. Della UE a Ventisette, del resto, oggi il francese assume sempre più il profilo del leader di fatto, in particolare di fronte a una Germania dal peso economico-industriale intatto, ma disorientata sulla risposta europea da dare alla guerra, dalle sanzioni contro Mosca alle armi pesanti per Kyiv. Negli ultimi cinque anni, Macron è stato il martellante ispiratore della necessità di dotare l’Unione di un’autonomia strategica a tutto campo, requisito indispensabile per dare l’ossatura alla sovranità di un’UE “libera nelle sue scelte e artefice del suo destino”; nei prossimi cinque sarà chiamato a fare da regista di un’operazione che ha dell’esistenziale per la stessa costruzione europea.
Arrivato sulla scena quando lo shock Brexit era ancora cocente e il disorientamento imperante, adesso, con un nuovo quinquennato alle porte, Emmanuel Macron può continuare nel suo disegno di riforma dell’Europa unita che aveva articolato per la prima volta nel discorso della Sorbonne del settembre 2017. La Francia del brusco stop al progetto di una Costituzione europea, con il no nel referendum del 2005, quasi vent’anni dopo è invece il laboratorio dove prende forma il futuro politico del progetto UE. Il programma di lavoro è ispirato a quelle priorità strategiche care a Parigi, che in questi anni si sono via via mimetizzate e poi integrate appieno nel linguaggio delle istituzioni di Bruxelles e quindi dell’Unione a Ventisette. Dalla difesa al digitale, dal nucleare all’industria, dal debito comune al clima, Macron si è dimostrato l’alfiere di un’Europa francese (più che di una Francia europea).
La risposta comune alla pandemia, con il Recovery Plan “Next Generation EU” immaginato in stretta sintonia con Berlino, è stato il terreno di prova principe per il primo mandato del presidente, con Macron e Angela Merkel insieme a offrire all’UE una via d’uscita alla crisi economica originata dal Covid senza precedenti, e persino impensabile data la tradizionale postura di Berlino: debito comune per finanziare la ripresa attraverso l’emissione di Eurobond sui mercati finanziari garantiti dalla Commissione. È il salto di qualità che ci si aspettava (e che è arrivato) dall’Europa di fronte alla crisi sanitaria, seguito a ruota dal piano congiunto per l’approvvigionamento dei vaccini. Prime volte destinate a non essere le ultime, se lo schema già testato per negoziato e acquisto centralizzato sarà a stretto giro ripetuto anche per i contratti di fornitura dell’energia; e se i bond comuni saranno utilizzati per sostenere ulteriori investimenti nazionali nella transizione ecologica, che è anche indipendenza energetica e contrasto al caro-vita, e nella difesa comune.
Leggi anche: Una svolta europea come eredità di David Sassoli al Parlamento
Ritrovato l’Eliseo, Macron può adesso riprendere l’idea del “Recovery di guerra” da dove l’aveva lasciata a metà marzo, nelle sale sfarzose di Versailles, in occasione del summit informale dei leader dei Ventisette: un nuovo piano comune di debito UE farebbe segnare un punto a favore della fiscalità comune e di una disciplina sui conti pubblici nazionali più tollerante e espansiva. È un disegno che vede Parigi e Roma allineate, come ha dimostrato l’editoriale congiunto firmato da Macron e Mario Draghi sul Financial Times a fine 2021: concretizza infatti il comune sentire di Francia e Italia sulla necessità di anteporre gli investimenti al rigore di bilancio, istituire un’agenzia UE del Debito e riformare la disciplina fiscale dell’Unione, trasformando il Patto di stabilità e crescita in un Patto di crescita e stabilità. Il Trattato del Quirinale, firmato meno di sei mesi fa, è la chiave di volta per allargare l’asse franco-tedesco e riportare il partenariato mediterraneo con l’Italia nella cabina di regia delle dinamiche di Bruxelles.
La ricerca della contrapposizione frontale con Marine Le Pen, l’avversaria che sintetizza la nemesi di Macron, ha contribuito per la seconda volta di fila a inquadrare la disputa per l’Eliseo come una scelta per o contro l’Europa unita, andando ben oltre il tradizionale scarso interesse dell’opinione pubblica francese per i dossier europei. Macron ha invece dimostrato che la politica europea è politica interna, e non estera. In questa campagna elettorale Le Pen aveva abbandonato i vecchi proclami per la realizzazione di una “Frexit”, intendendo in verità fare ben peggio, svuotando l’UE di senso dal di dentro, smantellando l’impianto dei Trattati, disintegrando le libertà fondamentali su cui si regge il mercato unico e quindi tutta la costruzione europea, da declinare in senso confederale.
Leggi anche: Macron bis: le nude cifre e la realtà politica
Non sorprende, insomma, il sospiro di sollievo tutt’altro che dissimulato nei palazzi delle istituzioni di Bruxelles alla notizia dell’esito del voto. Macron ha disinnescato la minaccia lepenista riuscendo ad ancorare l’UE al centro della contesa elettorale (ben più di quanto non lo sia stato, ad esempio, qualche mese fa in Germania, dove tuttavia nessun partito mainstream proponeva radicali cambi di rotta). Al tempo stesso, però, individuando negli estremisti anti-Ue l’avversario di riferimento, ha corso deliberatamente il rischio di rafforzarne il profilo, con effetti di medio e lungo termine da non sottovalutare.
A dare gravitas e a fare da sfondo alla seconda corsa per l’Eliseo di Emmanuel Macron è stata poi la (felice) coincidenza degli ultimi mesi del primo mandato da capo dello Stato con il semestre di presidenza di turno del Consiglio dell’UE, la vedetta di comando del consesso dei Ventisette Stati membri, da dove Parigi ha potuto muovere le fila dei negoziati (decisamente spediti) su provvedimenti-simbolo come il pacchetto digitale che ambisce a introdurre uno standard europeo, di fatto il primo al mondo, nella regolamentazione dei giganti del web: il Digital Markets Act (Dma), su cui l’intesa è stata trovata il 25 marzo, e il Digital Services Act (Dsa), che ha invece ricevuto il via libera il 23 aprile. Il primo definisce le regole del gioco per contrastare le pratiche sleali e l’abuso di posizione dominante dei colossi del web sui mercati online, il secondo disciplina contenuti, beni e servizi offerti su Internet, con l’obiettivo di rimuovere quelli illegali o nocivi che circolano sulle piattaforme digitali. Solo due esempi, ma eloquenti per portata politica e ricadute di calendario.
L’invasione russa dell’Ucraina ha poi rappresentato lo stress test per la cosiddetta “autonomia strategica” dell’UE, declinata non solo in senso geopolitico di rapporto fra potenze (Macron è stato fra i pochi leader a mantenere costantemente aperto il dialogo con il Cremlino), ma anche industriale; un vecchio pallino della Francia, che ha storicamente mostrato insofferenza rispetto alle strette maglie del diritto alla concorrenza UE che hanno frenato gli investimenti pubblici in aree critiche. La tendenza sembra ormai invertita a Bruxelles, con la normativa sul controllo degli aiuti di Stato ammorbidita, pur se solo temporaneamente, dalla necessità politica di aiutare la ripresa post-pandemia e post-guerra. È di marzo, ad esempio, la proposta di un Chips Act che vuole rendere il Vecchio continente autosufficiente nella produzione di semiconduttori entro il decennio, largamente ispirato da Parigi.
Ma non tutto l’itinerario di questi cinque anni è stato un tentativo di voltare pagina rispetto alle pratiche del passato. In alcuni casi, Macron è stato parte del problema. Con le sue scelte e il gioco di sponda con Berlino ha infatti rafforzato il Consiglio e il ruolo delle capitali nazionali nella definizione della direzione politica dell’Unione. Lo ha fatto sin dall’alba di questa legislatura europea, quando si è rivelato il king-maker nella scelta del nome dell’allora ministra della Difesa tedesca Ursula von der Leyen alla guida della Commissione. Questo esecutivo di Bruxelles è particolarmente debitore nei confronti di Parigi, che è per l’appunto fonte d’ispirazione per ampie parti della visione e delle priorità della Commissione.
Sul dossier allargamento, oggi tornato incredibilmente di interesse dopo la richiesta di adesione formalizzata da Ucraina, Georgia e Moldavia, ha raffreddato animi e speranze dei Balcani occidentali – in particolare Macedonia del Nord e Albania -, mettendo di fatto un blocco tout court all’adesione di nuovi Paesi; un’opposizione dettata dalle dinamiche politiche interne che necessariamente, ora che sul tavolo è arrivata prepotentemente la richiesta di Kyiv, dovrà essere rivista nel nuovo mandato. Discorso simile per il pacchetto immigrazione, ostaggio delle sirene nazionali e di un discorso pubblico improntato alla protezione delle frontiere, su cui Francia e UE non hanno fatto segnare passi avanti, al netto della storica – ma pur sempre emergenziale – della direttiva sulla protezione temporanea per accogliere gli ucraini.
Visto che ha sempre dimostrato un occhio di riguardo per i simbolismi, il presidente Macron ha adesso la possibilità di delineare il disegno politico per i prossimi cinque anni in Europa il 9 maggio, nel giorno in cui si celebra la festa dell’Europa e, quest’anno, si conclude anche nel Parlamento di Strasburgo la Conferenza sul Futuro dell’Unione, il processo partecipativo dal basso lungo un anno che – sperano in molti – può dare la carica giusta per rompere il tabù della riforma dei Trattati. A cominciare, magari, dalla fine dell’unanimità nelle decisioni di politica estera. Risarcirebbe l’Europa, con ampio ritardo, dello smacco francese del 2005, e imporrebbe alla Germania di dar seguito all’impegno messo nero su bianco nel contratto di governo.