Il primo turno delle presidenziali ucraine (31 marzo) ha confermato quello che i sondaggi avevano preannunciato: il comico Volodymir Zelensky è risultato il più votato dei 39 candidati che affollavano il listino elettorale. Zelensky, attore di professione, è stato protagonista di una notissima serie tv in cui interpretava un giovane insegnante che, quando il video di un suo sfogo contro la corruzione diventava virale sui social, si convinceva a fondare un partito (dal nome “Servo del Popolo”) e veniva eletto presidente. Il personaggio televisivo sbarcato nella realtà ha fondato davvero il suo partito: in poco meno di tre mesi è riuscito a convincere il 30.4% degli elettori, e ora arriva al ballottaggio di domenica 21 aprile da grande favorito.
Diversi analisti hanno interpretato il successo di un uomo di spettacolo, senza alcuna esperienza politica, protagonista di una campagna avara di contenuti programmatici e fondata sul carisma personale e un richiamo molto vago al cambiamento, come il segnale inequivocabile di una democrazia ancora immatura. Eppure, questa è stata probabilmente la consultazione elettorale più corretta ed equilibrata nella storia dell’Ucraina. Gli osservatori internazionali, coordinati dalla Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), hanno valutato positivamente il voto nel 99% delle sezioni ispezionate. Anche sul fronte delle manipolazioni giornalistiche la situazione è rimasta sotto controllo: sondaggi ed exit-poll sono risultati in linea con i risultati ufficiali e i tentativi russi di diffondere informazioni false non hanno influenzato il voto.
Diversamente, d’altronde, il presidente in carica Petro Poroshenko, oligarca miliardario, fra gli uomini d’affari più in vista dell’Europa Orientale, avrebbe potuto, senza troppe difficoltà, pilotare i risultati in maniera molto più invasiva di quanto dimostri il 16% che gli è sì valso il passaggio al secondo turno, ma che costituisce una bocciatura senza appello del mandato di governo che il paese gli aveva consegnato. Nel 2014, con un plebiscitario 54% delle preferenze al primo turno, era stato mandato al potere sulle ali delle proteste di Euromaidan.
L’unico elemento di disturbo registrato nella competizione elettorale ha riguardato la presenza nella lista dei candidati, evidentemente orchestrata ad arte contro Yulia Timoshenko, di uno sconosciuto Yuriy Timoshenko. Grazie alla somiglianza del nome, il candidato “civetta”, ha portato a casa lo 0.62% dei voti e provocato, secondo l’ufficio stampa della Timoshenko, l’ulteriore annullamento di schede per almeno un punto percentuale, a causa dell’espressione di una doppia preferenza. Un handicap non da poco considerando che Yulia Timoshenko (oligarca del gas e delle materie prime, tra i volti più noti della “Rivoluzione Arancione” nel 2004-2005 e primo ministro tra il 2007 e il 2010) è arrivata a solo due punti di distacco da Poroshenko.
L’exploit di Zelensky pare inscriversi nel solco di una tendenza, quella degli outsider di successo, che le democrazie occidentali hanno iniziato a sperimentare con la grande sorpresa di Donald Trump nelle elezioni presidenziali statunitensi del 2016 e che è proseguito poi con il successo italiano del Movimento 5 Stelle, la vittoria in Francia di Emmanuel Macron e l’elezione, appena poche settimane fa, di Zuzana Čaputová a presidente della Slovacchia. I social media e la comunicazione online hanno pesato in maniera determinante su tutti questi risultati, veicolati da un accesso al pubblico elettorale che, scavalcando i media tradizionali, ha dato spazio e visibilità a candidature altrimenti molto meno forti e visibili.
Zelensky costituisce in questo senso l’esempio più lampante. La sua candidatura, nata alla fine del 2108, in novanta giorni ha ribaltato le prospettive di una corsa che sembrava ormai indirizzata verso un ballottaggio Timoshenko-Poroshenko.
Il candidato Zelensky ha offerto uno sfogo alla voglia disperata degli ucraini di sperimentare un cambiamento di rotta, di vedere alla guida del paese qualcuno che non rappresenti la corruzione e l’immobilismo di una classe politica logorata da meccanismi di potere durissimi da scardinare. Zelensky non ha praticamente rilasciato interviste durante gli ultimi quattro mesi e ha comunicato quasi solo sulle piattaforme social. Il piano è stato chiaro sin dall’inizio: evitare di dare punti di riferimento ideologici, in modo da poter piacere a uno spettro di elettori molto ampio.
“Gli ucraini vedono in Zelensky quello che vogliono: i liberali lo considerano un liberale, i patrioti pensano che sia un patriota, i progressisti sono convinti sia di sinistra – ha spiegato l’analista politico di base a Kiev Valentyn Gladkykh in un’intervista a NBC News – tutto ciò che Zelensky ha fatto è stato dare un messaggio positivo, evitando attacchi diretti contro gli altri candidati, buttandola sempre sull’ironia e proponendo una sorta di scelta fra il futuro incerto rappresentato dalla sua inesperienza e il presente mediocre incarnato da Petro Poroshenko”.
Il comico ha poi pubblicato un programma elettorale che è in realtà una lista di valori di riferimento personali, ma resta ancora lontano dalla formulazione di proposte specifiche. Naturalmente, i suoi detrattori sostengono che Zelensky potrebbe essere in seria difficoltà di fronte alle enormi sfide diplomatiche ed economiche, non ultimo il doppio conflitto con la Russia nel Donbass e in Crimea, che l’Ucraina deve fronteggiare. E’ proprio l’esperienza sul fronte diplomatico e politico l’unica carta a disposizione di Poroshenko, che parte con uno svantaggio di popolarità apparentemente incolmabile, e che ha scelto di puntare tutto sugli elementi di stabilità e affidabilità che può in effetti rappresentare, specialmente in relazione alla gestione dell’occupazione militare russa nelle regioni dell’oriente ucraino.
Poroshenko, che ha incassato l’appoggio indiretto di Angela Merkel tramite un’irrituale telefonata di congratulazioni arrivata dopo il raggiungimento del ballottaggio, può vantare fra i risultati della sua premiership una resistenza solida sui fronti di guerra, la stabilizzazione della moneta, il rapporto stabilito con il Fondo Monetario Internazionale e la separazione della Chiesa ortodossa ucraina da quella moscovita, un traguardo raggiunto grazie al sostegno del Patriarcato ecumenico di Costantinopoli e che ha creato non pochi problemi alla Russia, che con la scissione deve fare a meno di un importante potere di influenza su Kiev. Paga però in maniera drastica quello che è stato percepito dall’elettorato come uno scarso impegno nel riformare la politica e lo stato, testimoniato dalle poche misure approntate contro la corruzione dilagante nelle istituzioni pubbliche, misure invocate a furor di popolo sin dall’insediamento di Poroshenko, cinque anni fa.
Proprio la lotta contro la corruzione è uno dei pochi punti chiari del programma di Zelensky, che ha più volte dichiarato di voler dedicare i suoi primi cento giorni da presidente all’implementazione di una serie di provvedimenti esemplari in questo ambito, fra i quali l’interdizione perpetua dai pubblici uffici per i condannati per corruzione e il divieto per gli indagati di essere rilasciati su cauzione.
Più incerta la linea sulla guerra nel Donbass. L’attore ha più volte spiegato di voler trovare una soluzione riaprendo il tavolo dei negoziati con Vladimir Putin, ma senza sacrificare uomini e territorio sovrano. Zelensky, ripetutamente additato da Poroshenko come incapace di difendere l’Ucraina dagli attacchi russi, vorrebbe portare al tavolo delle negoziazioni, al momento gestito da Francia e Germania, anche gli Stati Uniti, e si è detto favorevole alla presenza di una forza di pace internazionale nel paese. Macchinoso anche il discorso sulla Crimea: Zelensky ha dichiarato di allinearsi alla posizione ucraina ufficiale, secondo cui la sovranità sulla penisola del Mar Nero è indiscutibilmente ucraina, ma non ha fornito alcuna risposta su come recuperare il controllo dell’area.
Un approccio cauto è quello che l’Ucraina dovrebbe sviluppare rispetto a UE e Nato in caso di vittoria di Zelensky. Da questo punto di vista, Poroshenko è sempre stato netto nell’esprimere il suo desiderio di vedere l’Ucraina al più presto inclusa dentro entrambe le istituzioni. Zelensky, pur mantenendosi sul lato filo-occidentale, ha invece dichiarato che “per entrare nella NATO dovremo spiegare alla gente che si tratta di una scelta fatta per la sicurezza del Paese, dovremo raggiungere ogni persona, ogni ucraino, e arrivare a una decisione che deve essere acquisita attraverso un referendum”.
Qualunque sia il futuro dell’Ucraina rispetto all’avvicinamento all’Occidente, queste elezioni hanno comunque già chiarito i limiti strutturali di una strategia politica etno-nazionalista. La divisione fra l’Est di lingua russa e l’Ovest di lingua ucraina è stata ormai definitivamente seppellita dalla tornata elettorale del 31 marzo come un cliché abusato dai media occidentali. La mappa del voto mostra infatti come Zelensky, un madrelingua russo che ha evitato qualsiasi riferimento nazionalista nel suo discorso politico, ha conquistato gran parte dei voti proprio nell’ovest di lingua ucraina. Il tentativo di Poroshenko di imbrigliare l’elettorato in una logica di opposizione etnica – con lo slogan “Esercito! Lingua! Fede” – è stato rifiutato dagli elettori.
Lontani dal 49% conquistato nel 2010 dall’allora candidato pro-russo, poi spodestato a furor di popolo, Viktor Yanukovych, i due candidati vicini a Mosca, Yuriy Boyko e Anatoliy Grytsenko, il 31 marzo hanno sommato solo il 17% delle preferenze. E’ un altro segnale del fallimento del tentativo di rendere l’Ucraina un paese etnicamente omogeneo: sono troppi i legami fra due stati, e le relazioni troppo interconnesse. Basti pensare che ancora oggi sono almeno tre milioni gli ucraini che risiedono in terra russa e, nonostante il conflitto in corso, il 50% del paese ritiene sarebbe necessario istituire un confine fluido fra Ucraina e Russia, senza la necessità del rilascio di visti.
L’errore di valutazione di Poroshenko su una questione tanto importante rende ancor più difficile credere in una sua rimonta. E a favore di Zelenskiy, di cinque punti percentuali, ci sono anche le rilevazioni, effettuate prima del primo turno, sulla cosiddetta “seconda scelta”, vale a dire sull’orientamento di quegli elettori che hanno votato un candidato terzo nella prima tornata. Zelensky appare inoltre favorito dall’uniformità geografica del suo successo: si è imposto in quasi tutti gli Oblast del paese, ad eccezione di Lviv e Ternopil, nell’Ucraina Occidentale.
Le speranze di Poroshenko restavano attaccate al faccia a faccia di venerdì 19, svoltosi nello stadio olimpico di Kiev, in cui il presidente uscente ha cercato di far pesare l’inesperienza politica del suo avversario: “cosa farai, quando dovrai trattare con Putin?” gli ha chiesto polemicamente. Tuttavia Zelensky ha interpretato i sentimenti dell’elettore medio quando ha ribadito che un signor nessuno come lui doveva candidarsi per riparare i danni fatti dagli “esperti”.
Ma più degli attacchi di Poroshenko potrebbe pesare l’intensificarsi delle accuse di essere in realtà il burattino del magnate Igor Kolomoisky. L’oligarca, proprietario del canale tv che ha trasmesso la serie di Zelensky, ha un patrimonio stimato in oltre 2 miliardi di dollari, e ha spostato la residenza in Israele dopo essere stato accusato di frode contro lo Stato per il fallimento dell’istituto di credito PrivatBank.
Comunque vada, ci sarà da ancora da giocare una partita: quella per il rinnovo del parlamento (27 ottobre). L’attuale equilibrio legislativo-esecutivo rende infatti ormai necessario, per chiunque diventi presidente, poter fare affidamento sul sostegno parlamentare per promuovere il proprio programma politico. Per questo motivo, la Verkhovna Rada, il parlamento nazionale, ha un potere significativo rispetto alle attribuzioni del presidente, e il nuovo Capo dello Stato dovrà fare delle scelte di campo e scendere a patti con i partiti.
L’Ucraina ha ormai dimostrato di essere un paese dove la presenza della società civile è forte, e il controllo democratico della comunità internazionale funziona. Queste elezioni, che dovrebbero portare al potere un uomo senza alcuna esperienza politica, potrebbero paradossalmente rappresentare il punto più alto della storia democratica del paese. Nella speranza che il risultato politico dia ragione agli elettori.