I Pirenei non sono il Canale della Manica. Il voto spagnolo non ha avuto un significato dirompente come alcuni temevano e altri speravano: dopo la Brexit, il colpo del K.O. sugli equilibri politici europei non è arrivato. Il vincitore “politico” delle elezioni è stato il premier facente funzioni, il conservatore Mariano Rajoy (PP), che mostra così una capacità di tenuta molto superiore alle aspettative. E lo sconfitto è senza dubbio Pablo Iglesias, leader del populismo di sinistra che ha corso sotto le insegne di Unidos Podemos, che ha perso per strada oltre un milione di voti, mancando l’obiettivo del sorpasso ai danni del Partito socialista (PSOE).
La “seconda transizione spagnola”, apertasi con i movimenti degli indignados nel 2011, sembra essere giunta al termine. La politica a Madrid è senz’altro cambiata, ma senza rivoluzioni: i due partiti storici – PP e PSOE – sono ben lungi dallo scomparire di scena, e i nuovi attori – Podemos e Ciudadanos – devono accontentarsi di ruoli se non da comprimari, non davvero determinanti.
La Spagna, quindi, non seguirà le orme del Portogallo, che dallo scorso novembre è retto da un accordo inedito fra le organizzazioni di sinistra: il governo è un monocolore socialista guidato dal primo ministro António Costa, ma la maggioranza parlamentare comprende anche i rosso-verdi del Bloco de Esquerda (Blocco di Sinistra, simile alla greca Syriza) e i comunisti “ortodossi” del Pcp. Sfuma la possibilità che i due Paesi iberici abbiano esecutivi politicamente omogenei, in grado di unire le forze nei sempre difficili rapporti con Bruxelles e Berlino. Il fronte di sinistra anti-austerità resta dunque molto debole, limitato ai due stati più piccoli dell’Europa continentale meridionale: Portogallo e Grecia. Troppo poco per impensierire davvero la Cancelliera tedesca Angela Merkel, che sicuramente avrà tirato un profondo sospiro di sollievo nell’apprendere che il suo collega Rajoy e i Socialisti di Pedro Sánchez hanno nuovamente (come in dicembre) retto l’urto dei movimenti anti-establishment. La formula “merkeliana” della grande coalizione, da ieri, guadagna molti punti, profilandosi come unica vera ricetta anti-crisi.
Visto dai centri del potere europeo, quindi, il risultato delle elezioni politiche spagnole ripetute dopo sei mesi di stallo è senza dubbio positivo, malgrado non si sia raggiunto l’optimum di una maggioranza stabile. L’indicazione venuta dalle urne, tuttavia, è chiara: salvo colpi di scena – comunque impossibili da escludere del tutto – a Madrid governeranno ancora i conservatori. Le linee fondamentali della politica economica suggerite da Bruxelles non saranno dunque messe in discussione, e i popolari di Rajoy potranno gestire con tutto l’appoggio della Commissione europea i primi effetti della ripresa che si intravedono da quelle parti.
Per la cancelliera Merkel, il Presidente della Commissione Jean-Claude Juncker e il Governatore della BCE Mario Draghi è di grande importanza poter affermare – pur nella diversità dei loro ruoli – che in un Paese tutt’altro che secondario come la Spagna l’applicazione delle “riforme strutturali” non è costata il posto al premier uscente. La missione “salvate il soldato Rajoy” è, con ogni probabilità, compiuta.
Vista dalla periferia meridionale del Vecchio continente, invece, la tornata elettorale spagnola ha significati meno incoraggianti. Innanzitutto per il vicino iberico, il già menzionato Portogallo che rischia di dover ingaggiare in solitudine una dura battaglia con Bruxelles sui conti pubblici. Nel primo trimestre di quest’anno il deficit è stato del 3,2%, un punto di troppo rispetto all’obiettivo che si è dato l’esecutivo lusitano stesso. Da Lisbona sono partite rassicurazioni, ma anche segnali diversi: Catarina Martins, leader del Bloco de Esquerda, secondo partito della maggioranza, ha addirittura evocato un possibile referendum nel caso in cui la Commissione Juncker dovesse comminare sanzioni per il mancato rispetto dell’impegno a ridurre il disavanzo.
Dopo Brexit, la provocazione non poteva essere maggiore: chiedere al popolo di accettare o respingere eventuali decisioni “anti-portoghesi” di Bruxelles che significherebbero – così la leader del Bloco – «che l’Unione europea vuol dire solo austerità». Un avvertimento che, probabilmente, è solo propagandistico, ma che la dice lunga sulla quantità di “materiale infiammabile” che oggi circola in Europa.
Anche per la Grecia di Alexis Tsipras la mancata vittoria delle sinistre spagnole è una cattiva notizia. Nonostante la carica di rottura del nuovo governo ellenico non sia più certo quella dello scorso anno, anche alla Atene più realista di oggi avrebbe fatto assai comodo la presenza ai tavoli della UE di un esecutivo di Madrid amico, che potesse prendere le sue parti nel difficile contenzioso con la troika. I dossier da affrontare sono difficili e politicamente esplosivi: fra l’altro, privatizzazione delle università e ulteriori misure sul mercato del lavoro. Materie che appartengono a quegli ambiti che sono da sempre il bacino delle proteste di piazza – anche violente – nel Paese ellenico, e nella capitale in particolare. Oltre a ciò, un ipotetico governo a trazione Podemos avrebbe rappresentato un alleato prezioso anche sulla questione-chiave dell’immigrazione: le sinistre spagnole sono probabilmente le ultime forze politiche continentali rimaste a fare dell’accoglienza una propria bandiera, e si sarebbero mostrate sensibili alle richieste di aiuto e attenzione da parte del Paese di Lesbo e Idomeni.
La potenziale leader del blocco mediterraneo, l’Italia, avrebbe probabilmente anch’essa gradito un risultato elettorale diverso: a Matteo Renzi da quando è a Palazzo Chigi sono mancati fuori dai confini alleati per provare davvero a “cambiare verso” delle politiche anti-crisi decise a Bruxelles (e Berlino). E dopo il voto spagnolo la pressione anti-austerità non è certo più forte di prima, anzi.
Per aggredire i problemi della scarsa crescita, della disoccupazione, e quindi di conti pubblici che continuano a non tornare, il Sud dell’Europa dovrà quindi sperare, ora, più nelle debolezze altrui che nelle proprie forze. Dovrà sperare, cioè, che i timori delle leadership del Centro, dell’asse franco-tedesco, possano generare qualcosa di utile per tutti: dalla reazione di Berlino e Parigi all’avanzata dei populismi nazionalisti di destra che cantano vittoria per Brexit, insomma, potrebbe giungere quella spinta che finora è mancata per deviare almeno in parte dall’ortodossia dell’ordo-liberalismo germanico.
Senza dimenticare che il 2017 sarà anno elettorale sia in Germania, sia in Francia, e i governi uscenti non potranno sottovalutare il risentimento anti-europeo dei ceti popolari, pronto ad essere raccolto da due abili “imprenditrici della paura” come Marine Le Pen e la sua omologa tedesca, alla testa di Alternative für Deutschland, Frauke Petry.