I riflettori della politica nazionale e dell’opinione pubblica internazionale puntati sulle primarie democratiche della California sono stati una delle molte novità di questo ciclo elettorale. In primo luogo perché la competizione serrata quanto inattesa tra Hillary Clinton e Bernie Sanders ha allungato i tempi della selezione del candidato presidenziale. Ma anche perché l’ascesa di Donald Trump in campo repubblicano ha posto al centro della campagna e del discorso pubblico alcuni temi – l’immigrazione, le relazioni con il Messico, l’idea stessa di un’America aperta alle (e fatta di) minoranze, e in particolare quella ispanica – che nel cosiddetto Golden State risuonano con particolare forza.
La vittoria nello stato più popoloso dell’Unione (quasi 40 milioni di abitanti), e quindi più pesante in termini di “grandi elettori” alle elezioni di novembre, oltre a contribuire a sancire l’esito della competizione in campo democratico restituisce vigore alla fin qui tribolata campagna dell’ex-Segretario di Stato. Una sua sconfitta in una delle roccaforti liberal del paese non ne avrebbe arrestato il cammino verso la nomination, ma lo avrebbe significativamente azzoppato, amplificandone le debolezze e vulnerabilità.
Tuttavia, mentre si celebra l’evento storico della “prima volta” di una donna scelta come candidato alla presidenza di uno dei due maggiori partiti, l’osservazione dei risultati californiani attraverso il prisma ispanico suggerisce alcune considerazioni di segno tutt’altro che trionfalistico per Hillary Clinton e i suoi sostenitori. Nelle pieghe di questa affermazione, chiara ma non travolgente (55% contro 43%), si nascondono alcuni segnali che, se ignorati, potrebbero riservare brutte sorprese all’establishment democratico in vista di novembre.
In primo luogo va ricordato che Clinton partiva fortemente avvantaggiata in uno stato solidamente controllato dal partito, in cui l’apparato – la “machine” – conta almeno quanto il voto di opinione di orientamento progressista. La California è diventata un blue state in tempi relativamente recenti e per ragioni fortemente legate alla questione latina. Dopo i fasti di Richard Nixon e Ronald Reagan, gli anni Novanta diedero inizio a una sorta di mutazione genetica della politica statale, che ebbe un momento di svolta nella Proposition 187: un referendum del 1994 fortemente sostenuto dall’allora Governatore repubblicano Pete Wilson che aveva come obiettivo la limitazione dell’accesso degli immigrati irregolari ad alcuni servizi pubblici.
Quella campagna, seppur vittoriosa, sarebbe costata assai cara al GOP, che negli successivi avrebbe perso consensi e potere anche a causa del crescente peso elettorale della minoranza ispanica – principale bersaglio della nuova legislazione e che sarebbe diventata sempre più presente nell’organizzazione del Partito Democratico. Così in tutte le elezioni presidenziali dal 1984 almeno il 60% del voto ispanico è andato al candidato democratico – con l’eccezione del 58% di John Kerry nel 2004 – e Hillary Clinton nel 2008 aveva fortemente beneficiato di questo stretto legame tra comunità latina e partito, aggiudicandosi il 68% del suo voto nelle primarie che la vedevano impegnata contro l’outsider Barack Obama.
Eppure la vittoria a valanga che si sarebbe potuta ipotizzare e che i sondaggi di molti mesi fa sembravano confermare non si è verificata perché – e questo è il secondo elemento che dovrebbe indurre alla cautela i clintonistas – all’interno dell’elettorato ispanico si sta verificando la stessa frattura generazionale che sta spaccando in due la base democratica, con analoghi effetti sul voto alle primarie. Se i dati Field Poll un anno fa indicavano un divario abissale di 66 punti a 9 a favore di Clinton, gli ultimi mesi di campagna hanno evidenziato sia la forte presa di Sanders, sia un notevole incremento di registrazioni per il voto tra i giovani ispanici.
Secondo l’ultimo rilevamento Los Angeles Times/USC sull’elettorato ispanico effettuato prima del voto del 7 giugno i due candidati erano appaiati al 44%, ma il senatore del Vermont prevaleva per 58 a 31 sotto i cinquant’anni, mentre al di sopra di questa soglia i dati si capovolgevano (16 a 69). Un dato che assume maggiore rilevanza alla luce dell’impennata nella partecipazione al voto di quei segmenti demografici meno propensi a riconoscersi nel candidato sostenuto dall’establishment del partito. Dal 2008 si è avuto una aumento del 35% degli iscritti alle liste elettori come “indipendenti”, e molti di questi sono giovani ispanici, riluttanti a seguire le indicazioni dei leader della comunità.
Dal luglio 2014 infatti la California è l’unico tra gli stati principali dell’Unione a essere un “majority-minority state”: la popolazione ispanica (il 39% della popolazione dello stato e il 28% degli aventi diritto) è più numerosa di quella bianca e il divario è destinato a crescere. Naturalmente è impossibile determinare con certezza l’impatto di queste tendenze demografiche, ma la tendenza verso un voto latino più indipendente e meno legato all’organizzazione del partito sembra evidente.
Si intravede qui un terzo motivo di cautela: la California (e l’America) ispanica, che aveva accolto con grande favore Obama e ha continuato a sostenerlo nonostante la mancata riforma delle legislazione sull’immigrazione (nel 2012 lo votò il 71%, mentre a Romney andò il 27%). L’attuale mobilitazione contro la prospettiva di una affermazione di Donald Trump a novembre (anche così si spiega l’aumento dei votanti tra i giovani) non dovrebbe però indurre a dare per scontato il suo sostegno al Partito Democratico e ai suoi candidati in ogni occasione. Questa almeno è la linea seguita da molte associazioni e organizzazioni ispaniche che non perdono occasione di sottolineare che l’opposizione alla xenofobia e al muro che il candidato repubblicano vorrebbe costruire lungo il Rio Grande va accompagnata da misure in tema di immigrazione e dal rafforzamento delle politiche sociali che riguardano più direttamente una comunità che rappresenta ormai oltre il 10% dell’elettorato.
Nel breve termine il matrimonio di interessi tra comunità ispanica e candidati democratici a livello nazionale e locale sembra destinato a durare, stante la deriva di cui è oggetto il GOP. Dalla California arrivano al Democratic National Committee buone notizie e molti voti, ma anche una forte richiesta di cambiamento.