A tre anni dal referendum sulla Brexit, gli elettori britannici hanno punito i due partiti maggiori per la disastrosa impasse sul divorzio dall’Unione Europea, e premiato le formazioni politiche che hanno espresso una posizione netta sulla questione: il Brexit Party di Nigel Farage soprattutto, ma anche i redivivi Liberal Democratici contrari all’uscita. L’immagine che emerge dalle elezioni europee è quella di un Regno Unito più polarizzato che mai, dove il centro non tiene più, con i Tory, il tradizionale “partito di governo” del Paese, umiliati dal peggior risultato elettorale da 200 anni a questa parte (9%), ridotti a quinta forza politica del paese, sotto i Verdi. La lotta alla successione di Theresa May alla guida del governo – le dimissioni sono state annunciate il 24 maggio – assume ora un’importanza vitale per il futuro del partito.
Erano elezioni che nessuno voleva, emblema stesso del fallimento della Brexit, originariamente prevista per il 29 marzo e ancora non avvenuta. Non le volevano i conservatori, che sapevano di andare incontro ad una disfatta storica; non le volevano i laburisti, la cui ambiguità sulla Brexit è stata messa a nudo nella campagna elettorale; non le voleva un Paese affaticato da un tema che lo sta consumando, mettendo in secondo piano qualunque altra decisione politica. Per molti degli elettori che sono andati a votare per eleggere 73 eurodeputati, è stata l’occasione per punire la classe politica di Westminster.
Il vincitore assoluto è Nigel Farage, il leader indipendentista già fondatore dello UKIP (UK Independence Party, il partito anti-UE che già fu il più votato alle Europee del 2014 con il 27%), oggi alla guida del neonato Brexit Party. Farage, che dopo il referendum aveva fatto un passo indietro (“ho fatto la mia parte”, aveva detto), è tornato in prima linea cogliendo l’opportunità offerta dall’inaspettata partecipazione britannica al voto europeo, e ha vinto in maniera dirompente: Il Brexit Party, formato appena sei settimane fa, ha saputo incanalare la rabbia dei Brexiteer di fronte allo stallo, diventando il primo partito nel Paese con il 31.6% e 29 eurodeputati. I 29 scanni ottenuti dal Brexit Party ne fanno il partito più rappresentato al nuovo parlamento UE, alla pari con la CDU-CSU tedesca e la Lega.
Il partito di Farage è populista e monotematico, e dice tutto già nel nome. Il messaggio non potrebbe essere più semplice: “Noi contro di loro”, dove l’avversario non è il Remainer già sconfitto ma i deputati di Westminster accusati di aver tradito il risultato del referendum del 2016. Farage, che non ha nemmeno presentato un manifesto elettorale, ha lanciato il Brexit Party come forza anti-establishment per eccellenza. Adesso chiede un ruolo nel definire i termini del divorzio, partecipando al tavolo decisionale. E, in caso di elezioni anticipate, rischia di sottrarre ulteriori consensi ai Tory, soprattutto se lo stallo sulla Brexit dovesse continuare. “Il sistema bipartitico è fallito, non serve a nessuno se non ai due partiti, noi siamo pronti a sfidarlo”, ha detto. Per i Tory a pezzi, una prospettiva di cui aver paura.
Dall’altra parte della barricata c’era il voto Remainer. Sono stati i Liberal Democratici ad intercettarlo al meglio, diventando il secondo partito con il 20.3% e portando a Strasburgo ben 15 deputati, trasformandosi nella seconda forza del gruppo liberale ALDE, dopo il partito di Emmanuel Macron. Come Farage, l’anziano leader Vince Cable ha usato un linguaggio diretto, come dimostra lo slogan elettorale: “Bollocks to Brexit” (qualcosa come “Al diavolo la Brexit”, ma più volgare). I Lib-Dem, che erano reduci da un’ottima prestazione alle elezioni amministrative che si sono tenute all’inizio del mese, vogliono un secondo referendum, e forse addirittura la revoca dell’Articolo 50 del trattato di Lisbona, che ha dato il via alle procedure di divorzio. Gli elettori sembrano aver finalmente perdonato al partito la coalizione con i conservatori nel governo di David Cameron (2010-2015) che tanti consensi gli è costata negli anni successivi.
Di contro, Change UK, il nuovo partito centrista ed europeista formato da transfughi Labour e Tory, è stato un flop: con un nome generico, scarsa organizzazione e una leader, Heidi Allen, troppo poco riconoscibile non è riuscito a portare a Strasburgo nessun deputato (nemmeno candidati di altro profilo come la sorella di Boris Johnson, Rachel), racimolando appena il 3.4% delle preferenze.
Per i partiti maggiori le elezioni sono state disastrose. Il quinto posto del partito conservatore, dietro a Labour (14%) e Verdi (12%), gli ha fruttato solo quattro eurodeputati eletti. E menomale che Theresa May era già stata costretta alle dimissioni, altrimenti nemmeno lei, che è andata avanti per tre anni tra avversità ed errori di ogni tipo, sarebbe potuta sopravvivere a una catastrofe di queste dimensioni. I Tory si preparano ora alla lotta per la leadership del partito, che si aprirà formalmente il 10 giugno, tre giorni dopo che le dimissioni di May saranno operative.
I pretendenti sono già una decina, ma per tutti l’uomo da battere è l’ex ministro degli Esteri e paladino del Leave Boris Johnson. Se eletto dal partito, dovrà cercare di bloccare l’emorragia di voti verso il Brexit Party e riconquistare gli elettori delusi. Sarà cruciale uscire dall’impasse sulla Brexit: Johnson potrebbe cercare una riapertura del negoziato con Bruxelles (obiettivo ambizioso), sotto una rinnovata minaccia di no-deal, il divorzio senza accordo che non piace a molti membri dell’Unione.
Ma anche il Labour ha poco da festeggiare. Dopo anni di austerity a guida Tory, con i conservatori lacerati da una guerra civile sull’Europa e alla ricerca di un nuovo leader, i laburisti avrebbero dovuto stravincere. Invece hanno avuto un calo di 11 punti percentuali rispetto al 2014 e dimezzato il numero di eurodeputati, da 20 a 10. Hanno pagato una posizione da sempre opaca sul tema qualificante della Brexit. Il Labour ha un leader euroscettico, Jeremy Corbyn, ma deputati per lo più europeisti; e anche l’elettorato è diviso. Le grandi città che votano Labour sono Remain, ma le aree del nord Inghilterra tradizionalmente rosse hanno votato Leave. Corbyn ha cercato una mediazione tra le due istanze, ma ha scontentato tutti: il Labour ha finito per perdere voti a favore dei Liberal Democratici nelle città (inclusa Londra e perfino Islington, il collegio di Corbyn, proprio nel giorno del suo settantesimo compleanno); e a favore del Brexit Party nelle aree del nord.
Le elezioni europee, per un parlamento percepito come “lontano”, sono tradizionalmente un ottimo terreno per un voto di protesta che poi non viene replicato alle elezioni politiche, o quanto meno non nella stessa misura. Ma, nella crisi politica che attanaglia il Paese, le ripercussioni nazionali di questa tornata elettorale saranno profonde. Il risultato acuisce la crisi dei due partiti maggiori, che sommano meno del 25% delle preferenze dei cittadini, e potrebbe spingerli verso posizioni estreme. Nel partito conservatore, l’affermazione di Farage sarà interpretata in due modi: come un invito a perseguire un no-deal entro la nuova scadenza negoziata con Bruxelles del 31 ottobre, ma il rischio è che l’impasse continui dato che i Comuni sono contrari. Oppure, ipotesi meno probabile, come una spinta per un compromesso che possa finalmente consentire al Paese di uscire dall’Europa e mettere fine ad una saga estenuante, e qui il rischio è che l’intransigenza dell’ala anti-UE bocci ancora ogni tentativo in questo senso. Il nuovo leader, che sia Johnson o altri, non avrà vita facile con un parlamento e un partito spaccati, ma il rischio di un’uscita senza accordo, con le dimissioni di May e il trionfo di Farage, è certamente cresciuto.
Per i laburisti la sfida è quella di sposare senza più tentennamenti la causa del secondo referendum e riprendersi i voti dei Remainers andati ai LibDem. Una richiesta arrivata da più parti all’interno del partito, persino dal cancelliere ombra McDonnell (“non possiamo più nasconderci”, ha detto). Corbyn, che finora ha spinto per le elezioni anticipate, è sempre stato tiepido, per non dire ostile, all’idea del secondo referendum, ma la batosta elettorale non gli lascia scelta. “Il Brexit deal dev’essere sottoposto a voto popolare”, ha dichiarato ieri sera.
Quest’improbabile, paradossale elezione ha offerto una fotografia degli umori del Regno a tre anni dallo shock del giugno 2016: ne viene fuori un paese spaccato, dove le identità Remain e Leave contano ormai più delle tradizionali fedeltà di partito. Dove tre elettori su quattro abbandonano sia Tories che Labour, incapaci di offrire una vera leadership sulla questione più importante affrontata dal Paese dal dopoguerra a oggi.