La cronaca offre spunti quasi quotidiani su una vicenda che sembra ormai senza soluzione: la persecuzione della minoranza musulmana rohingya in Myanmar da parte di gruppi di “attivisti” buddisti. Attivisti che contano molto spesso nelle loro file i monaci dalle vesti color zafferano latori del messaggio compassionevole di Gautama Budda.
L’esplosione dei contrasti si deve principalmente a tre elementi: il primo è che la lenta emorragia di popolazione dallo stato del Rakhine, dove i rohingya vivono (costituiscono meno di un terzo degli abitanti), ha indebolito in maniera sostanziale questa componente demografica del Myanmar. Il secondo è che la persecuzione smentisce – come per altro già accaduto nello Sri Lanka con la minoranza indù – l’idea di una convivenza a prescindere pacifica di altre religioni con quella che, per definizione, dovrebbe essere per antonomasia la via spirituale più tollerante: quella buddista. Il terzo infine riguarda l’evidente contraddizione interna al sistema di potere birmano: Su quello che è stato addirittura bollato come un genocidio mascherato o una operazione di pulizia etnica, il governo democratico del Premio Nobel Aung San Suu Khyi si mostra impotente e muto. Per scelta o per forza.
La frontiera che separa il Myanmar dal Bangladesh, lo stato confinante dove per i rohingya è più facile emigrare, è segnata dal fiume Naf che si allarga sino a diventare un braccio di mare. La fuga verso questo Paese, musulmano e con tradizioni e costumi comuni anche ai rohingya birmani, data da diverso tempo. La gente si imbarcava e si imbarca su piccole piroghe per attraversare il grande estuario, quando le turbolenze e veri e propri pogrom anti musulmani ciclici mettono a rischio la vita di intere famiglie.
Fatti gravi sono avvenuti nel 2012 con l’arrivo sulla scena di un monaco buddista ultra nazionalista che si è guadagnato persino la copertina di Time: Ashin Wirathu della Ma Ba Tha o Associazione patriottica del Myanmar (Pab) o Associazione per la protezione della razza e della religione. La persecuzione fin dentro le abitazioni private e la fuga verso il Bangladesh (e verso Malaysia e Indonesia) è storia antica, anche se ha visto una ripresa sia negli anni Ottanta (nel 1982 la giunta militare aveva varato una legge sulle nazionalità che negava quella birmana ai rohingya), sia nel 2012, sia a partire dall’ottobre del 2016 quando, in seguito a disordini alla frontiera (per l’uccisione di alcuni militari da parte di un gruppo radicale secessionista rohingya) si è scatenata una caccia all’uomo e la distruzione, documentata da foto aeree, di 1500 villaggi: circondati, evacuati, dati alle fiamme.
I numeri dell’esodo sono incerti perché molti dei campi in cui i fuggiaschi trovano rifugio in Bangladesh sono “informali” e c’è una grandissima mobilità interna (l’UNHCR controlla solo due centri). Ma soltanto tra Natale e i primi di gennaio del 2017 si erano ammassati nei campi bangladesi oltre 30mila profughi.
Secondo il rapporto dell’UNHCR uscito il 20 giugno scorso per il World Refugee Day, il numero dei rohingya che hanno lasciato le loro case negli anni ammonta a 490.300, di cui 276.200 si troverebbero in Bangladesh. Si troverebbero perché per le autorità di Dacca i rohingya stimati in Bangladesh vanno da 300 a 500mila. Se in Myanmar sono senza documenti e titoli di proprietà e non sono riconosciuti come nazionalità – non possono candidarsi né dunque essere votati e rappresentati – in Bangladesh il loro destino non migliora poi molto . La condizione è precaria in un Paese povero e dove il dovere di solidarietà religiosa si scontra con la mancanza di lavoro e la competizione di manodopera a basso costo.
I rohingya sono effettivamente “omogenei” ai loro cugini del Bangladesh: parlano la stessa lingua e praticano la stessa fede. È il motivo, continuamente ribadito dai militari birmani, per cui in Myanmar sono considerati “immigrati” e dunque “non birmani”. L’origine della comunità è controversa, tanto da prestarsi con facilità a interpretazioni declinate politicamente. In più c’è di mezzo, come spesso accade, una frontiera che ha subito notevoli variazioni. Alla fine della prima guerra anglo-birmana nel 1926, venne firmato il Trattato di Yandabo con cui i birmani furono costretti a cedere le coste dello Stato dell’Arakan tra Chittagong, nell’attuale Bangladesh, e Capo Negrais (oggi nuovamente birmano). Che passarono sotto il controllo della Corona britannica o meglio della East India Company, che allora amministrava da Calcutta le terre del subcontinente indiano. L’Arakan è l’attuale Stato di Rakhine e che i rohingya, che in parte lo abitano, chiamano Rohang. Poi l’Arakhan – dopo la decolonizzazione – tornò sotto Rangoon.
Il motivo etnico religioso, in un Paese dove la minoranza musulmana conta comunque complessivamente 5milioni di persone, non è però l’unico alla base dell’espulsione. In un articolo scritto per il britannico The Guardian la sociologa Saskya Sassen ha ricordato che “…in Myanmar, i militari si sono accaparrati vaste porzioni di territorio di piccoli proprietari fin dagli anni Novanta, senza compensazioni e minacciando chi si opponeva. Questo land grabbing è continuato nel tempo ma si è esteso enormemente negli ultimi anni. All’epoca dei fatti del 2012, la terra destinata a grandi progetti era aumentata in tre anni del 170%. Nel 2012 la legge sulla terra è stata modificata per favorire grandi acquisizioni aziendali”. In sostanza, sostiene la docente della Columbia University, il governo ha messo in pratica un piano che cede porzioni di territorio a grandi compagnie in grado di investire e migliorane lo sviluppo rurale ma con effetti nefasti: “Dobbiamo chiederci – scrive ancora – se la persistente persecuzione dei Rohingya (e di altri gruppi minoritari) non possa essere in parte generata da interessi militari ed economici, piuttosto che da questioni prevalentemente etnico/religiose […] Di recente, il governo ha assegnato 1.268.077 ettari nell’area abitata dai Rohingya allo sviluppo rurale aziendale; Questo è un bel salto rispetto alla prima allocazione formale del 2012, per soli 7.000 ettari. In una certa misura l’attenzione internazionale sulla religione ha messo in ombra acquisizioni di terra che hanno colpito milioni di persone, tra cui la comunità rohingya”. Una chiave di lettura che aggiunge un elemento poco indagato.
Di fronte a tutto ciò, da qualsiasi verso si prenda la questione, l’espulsione dei rohingya è un fatto. Un fatto che ha visto sia le Nazioni Unite sia singoli governi (quello della Malaysia ad esempio) prendere una posizione molto critica – come hanno fatto, alcuni mesi fa, anche 13 premi Nobel.
Proprio quel Premio è stato attribuito ad Aung San Suu Kyi nel 1991, per una sorta di ironia della storia; la signora, oggi alla guida del Myanmar, non ha reagito. Il suo silenzio è stato molto criticato, così come la missione di cui aveva incaricato l’ex segretario generale dell’Onu Kofi Annan nel 2016 – che, al suo ritorno dal Rakhine, ha difeso il silenzio della Nobel e negato la legittimità del termine “genocidio”, definizione utilizzata dalladalla Malaysia. Per la verità Suu Kyi ha fatto più di un passo formale: oltre alla missione Annan ne ha sostenuta una nazionale e ha scritto ai militari per avere spiegazioni. Ma si è opposta a una indagine indipendente dell’Onu e, soprattutto, non ha mai preso di petto la questione limitandosi a dire, in una intervista alla Bbc, che i rohingya “possono tornare e saranno i benvenuti”. Ma in che condizioni?
Il suo partito, che ha vinto le prime elezioni libere nel 2015, ha guadagnato la presidenza della repubblica e la maggioranza in parlamento. Ma i militari controllano d’ufficio, per volere della Carta costituzionale, parte del parlamento, ossia il 25% dei seggi sia alla Camera Alta che alla Camera Bassa: un peso non indifferente. Inoltre, la legge stabilisce che non può essere presidente del Myanmar chi abbia sposato uno straniero o i cui figli lo siano: poiché Suu Kyi aveva un marito britannico e ha due figli col passaporto del Regno Unito si è dovuta accontentare di un ruolo di consigliera e di ministra degli Esteri. Infine, i militari hanno negoziato il controllo tre ministeri chiave: Difesa, Interni e Frontiere.
Schiacciata tra un potere formalmente in mano sua ma in realtà ancora in gran parte sotto la minaccia dei militari, la titolare di un Premio Nobel che ebbe una grande valenza politica fa oggi i conti con il rischio sempre possibile di un ennesimo colpo di Stato. E vuole evitare che il dossier rohingya dia ai fautori di un golpe una carta da giocare.