Il trilemma politico-ambientale: le tre “P”

 

 Il summit del G20 che si è tenuto a Roma a fine ottobre ha adottato uno slogan che, a ben guardare, racchiude un problema di fondo per le scelte politiche sulla “trasformazione verde”: People, Planet, Prosperity. I tre termini si possono tradurre, con qualche libertà, come rispettivamente equità, ambiente, crescita.

Nel concetto di equità rientra la qualità della vita e dunque, naturalmente, anche la salute delle persone. In quello di ambiente rientra un insieme di transizioni energetiche, industriali, di comportamenti collettivi. Nel concetto di crescita rientra il modello di sviluppo, cioè le modalità (sostenibile, nel nostro caso) in cui si vuole che gli scambi economici aumentino la disponibilità di beni e servizi e ne migliorino la qualità.

Rendere più sostenibile l’interazione tra l’uomo e la natura è la sfida del XXI secolo

 

In occasione del vertice delle venti maggiori economie mondiali, si è comprensibilmente presentato questo trittico come una direzione di marcia virtuosa lungo cui procedere “in parallelo”. In effetti, la situazione è assai più complicata perché i tre termini sono in forte tensione tra loro – una tensione che sta già emergendo ma che finora è stata sottovalutata o deliberatamente ignorata. Le “tre P” costituiscono un vero trilemma e impongono difficili trade-off, cioè rinunce e sacrifici.

Il trilemma ruota in effetti attorno al consenso politico, e ci costringe a respingere la visione iper-semplificata e fuorviante che ci è stata spesso proposta, soprattutto nel contesto della COP26: è la visione che contrappone, da una parte, leader recalcitranti e sostanzialmente asserviti ai “poteri forti” del grande business; e, dall’altra, un’opinione pubblica illuminata (mobilitata soprattutto da gruppi giovanili) che spinge nelle piazze per politiche più radicali e misure più rapide di trasformazione “verde”. La realtà politica è profondamente diversa, se appena si inserisce una variabile decisiva in questo quadro: i costi della transizione.

La visione iper-semplificata immagina di far pesare i costi quasi interamente sul grande business (tassazione), per poi redistribuire le risorse finanziarie anche a sostegno delle categorie che saranno più danneggiate, almeno temporaneamente, dalla “dislocation” di varie filiere produttive altamente inquinanti. Di fatto, è invece praticamente inevitabile che le multinazionali – ma anche il piccolo produttore locale, se e quando ne avesse l’opportunità – finiranno per scaricare i costi della maggiore tassazione sul consumatore finale, che dunque, in un modo o nell’altro, sarà colpito da alcuni aspetti della transizione. Discorso analogo vale per l’aumento dei prezzi energetici, che non sembra davvero un fenomeno soltanto contingente e di breve termine: anche in questo caso, le spinte inflazionistiche andranno gestite con grande attenzione ma in qualche misura finiranno certamente per colpire i consumatori finali, che naturalmente sono al contempo elettori nei Paesi democratico-liberali.

Ora, così presentata, l’intera operazione acquisisce contorni ben diversi rispetto a qualsiasi contrapposizione “binaria” – pro e contro una rapida trasformazione sostenibile. Ed è così che si devono porre i quesiti in termini di trade-off tra priorità ugualmente importanti (equità, target ambientali, crescita), cioè in termini di consenso politico. Va da sé che se il consenso svanisce i governi democratici non avranno la forza e la legittimità per proseguire nella direzione di marcia auspicata in occasione del G20 e della COP26.

Ciascuna delle maggiori potenze economiche vive il trilemma in modo diverso, ma nessuna può sfuggire alla sua logica ferrea.

In Cina, il Presidente (e sempre più leader unico) Xi Jinping ha promesso di raddoppiare il reddito pro capite entro il 2035, ed è assai probabile che questo obiettivo prevarrà su qualsiasi altro, a dispetto della genuina preoccupazione per le questioni ambientali che ormai va crescendo anche nella Repubblica Popolare.

Negli Stati Uniti, il Presidente Joe Biden ha presentato gli obiettivi sostenibili come la risposta, simultaneamente, a una vera emergenza ambientale e a un problema di competitività del sistema produttivo americano. Ha così insistito su tre parole-chiave: “jobs, jobs, jobs”. Anche qui, le priorità sono ben chiare.

 

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Quanto all’Unione Europea, il piano della Commissione “Fit for 55” deve ancora essere tradotto in misure concrete dai Paesi membri, e la discussione su tempi e modi della transizione verde è appena iniziata: ne va dell’intera struttura industriale del più grande mercato unico al mondo.

Infine, c’è la popolazione del resto del pianeta: per rendersi conto di quanto sia complicata la trasformazione produttiva che stiamo tentando di realizzare, basta guardare al ruolo dell’India alla COP26, che sembra aver spiazzato tutti per la durezza della sua posizione negoziale. In effetti, il governo Modi persegue certamente obiettivi nazionali, eppure in qualche misura riflette la situazione di molti Paesi che devono ancora raggiungere la famosa “trappola del reddito medio” in cui si trova oggi la Cina. Per loro, la crescita accelerata è una sorta di precondizione per poter contare nel mondo del futuro – un mondo di cambiamenti climatici ma anche di competizione geopolitica.

Pur con le importanti differenze strutturali e di prospettiva, tutti i decisori devono confrontarsi con il trilemma: in sostanza, non possono gestire nessuna delle grandi sfide del XXI secolo in modo indipendente dalle altre. Si pensi ai negoziati commerciali, come quello USA-UE che è ripartito a settembre con la denominazione di Trade and Technology Council – fondamentale per fissare potenzialmente gli standard dell’intero sistema globale. E’ chiaro che il concetto di “free trade” è stato già scavalcato da una visione complessa che tiene assieme concorrenza, “fair trade”, e anche commercio “sostenibile” con le relative regole sulle modalità di produzione di beni e servizi. Si pensi alle stesse procedure di bilancio dell’Unione Europea, che devono necessariamente prevedere alcune eccezioni per gli investimenti “verdi” (e per quelli “digitali”, visto il ritardo europeo in questo settore). Si pensi, ancora, ai rapporti USA-Cina, che non possono ignorare la dimensione ambientale anche mentre le tensioni geopolitiche spingono per una rottura e i mercati globali continuano ad essere vantaggiosi (nonostante le tentazioni del “decoupling”).

In ciascuno di questi casi, si stanno anche cercando forme di finanziamento della transizione, perché essa non si finanzia da sé, ma intanto le misure in via di studio o attuazione hanno effetti sulla produzione, la distribuzione, il commercio, e dunque sul lavoro.

Alle imprese viene chiesto di investire, ma senza un quadro regolatorio chiaro gli investimenti non sono sufficienti. Inoltre, molti dei nuovi settori tecnologici più importanti per la sostenibilità sono a basso contenuto di manodopera – il che pone naturalmente un problema di impiego.

Ai cittadini viene chiesto di cambiare stili di vita, ma senza prospettive di crescita per tutti sembra rimanere solo uno scenario di “austerità” o frugalità senza fine. Inoltre, un eventuale aumento troppo pesante della tassazione di alcuni beni e servizi finalizzato a incentivare la transizione rischia di deprimere consumi e crescita – dunque anche le aspettative, con numerose ripercussioni, dalla fiducia nelle istituzioni ai trend demografici all’atteggiamento verso l’immigrazione.

A livello internazionale, anche ai Paesi più poveri viene chiesto di rinunciare da subito alle fonti energetiche più inquinanti, ma senza una massiccia disponibilità di energia non c’è sviluppo. Intanto, la reticenza dei Paesi più ricchi a sostenere finanziariamente questa operazione è motivata in parte dai molti impegni interni assunti dai loro governi, per di più in una fase di indebitamento pubblico mediamente altissimo.

Come si vede, la coperta è sempre corta, da qualsiasi lato si cerchi di tirarla.

Anche sottolineare l’importanza del cosiddetto “periodo transitorio”, che si ragioni al 2030 o al 2050, è un modo per dire che il trilemma è ineludibile e richiede scelte difficili delle quali l’opinione pubblica non è ancora pienamente consapevole.

 

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Il fatto che alla COP26 di Glasgow siano emerse dure obiezioni proprio sulla tempistica di alcuni interventi e obiettivi non è soltanto l’espressione di gretto egoismo, di miopia, o di una sorta di pigrizia decisionale da parte dei governi; il punto è che i tempi stretti aggravano il trilemma e accelerano il processo di disgregazione del consenso sulle politiche ambientali. I leader lo hanno capito, ma non hanno (ancora) avuto il coraggio di comunicarlo chiaramente ai loro cittadini. In altre parole, i ritardi nel perseguimento degli obiettivi ambientali sono in parte dovuti al tentativo di dilazionare i costi, cioè di assicurarsi un certo livello di consenso.

Questo trilemma resterà con noi a lungo.

 

 

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