Il triangolo strategico alla Trump

 Dopo che la Russia bombarda sul terreno l’Ucraina da tre anni, Donald Trump bombarda a parole Volodymyr Zelensky. C’è una bella differenza fra un’aggressione militare e un’aggressione verbale. Ma l’impressione è che, pur di portare Putin al tavolo negoziale, la Casa Bianca stia concedendo in anticipo alla Russia molto, troppo. Perché?

 

Rischiando il “sanewashing” – neologismo secondo cui si cerca di dare senso ad argomentazioni così radicali da perderlo – il quadro mi pare questo.  Donald Trump è convinto che l’appoggio all’ Ucraina sia stato un errore strategico compiuto da Joe Biden in accordo con gli europei. Un errore perché la difesa dell’Ucraina non è un interesse vitale degli Stati Uniti (“siamo molto lontani” ha detto il nuovo presidente americano), distoglie risorse dal quadrante Indo-pacifico e ha prodotto un asse fra Russia e Cina che indebolisce l’America sul piano globale. Mettere fine alla guerra parlando con Putin ristabilisce, per la Casa Bianca, le priorità giuste: permette a Washington di staccare Mosca da Pechino, lascia la patata bollente di un eventuale dopoguerra all’Europa e consente all’America di concentrarsi su di sé e sulla rivalità con la Cina, il vero competitore strategico.

 

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Torniamo, in condizioni molto diverse, agli equilibri interni al famoso “triangolo strategico” fra grandi potenze. Durante la Guerra Fredda, Richard Nixon aveva giocato una carta cinese. Oggi Trump gioca in modo molto meno diplomatico una carta russa. A differenza di Barack Obama – che aveva derubricato la Russia a potenza regionale, ferendo così l’orgoglio imperiale di Putin – Trump fa finta di considerare Mosca un interlocutore paritario, condizione psicologica per portare lo zar del Cremlino verso un’intesa bilaterale.

Donald Trump ha l’istinto brutale di un uomo che crede nell’espansione territoriale sul piano internazionale e nell’espansione del potere presidenziale su quello interno. La posta in gioco globale lo interessa di più del futuro dell’Ucraina, storicamente contesa fra Polonia e Russia e che, nella sua visione, graviterà comunque in una zona grigia ai confini orientali dell’Europa – lontano da Washington, appunto. Per la Casa Bianca di oggi, il destino dell’Ucraina non è il precedente di una lotta esistenziale fra democrazie liberali e potenze autoritarie, come era per Joe Biden. E’ una pedina nella rivalità fra grandi potenze. E se l’Europa dovrà pagare un prezzo, che l’Europa si interroghi su se stessa: Vance dixit a Monaco. Per il mondo politico trumpiano, gli europei sono “frenemies”, amici e nemici al tempo stesso.

Per noi europei è un brutto risveglio. Chiaro: una fine del conflitto in Ucraina è anche nel nostro interesse, abbiamo pagato una quantità di costi – dalla scossa energetica, al volume di aiuti, alle sanzioni contro Mosca. Ma le condizioni del cessate-il-fuoco contano e molto: per il futuro di quella parte dell’Ucraina che subirà una perdita territoriale ma spera ancora nella propria indipendenza; e per la sicurezza di un’Europa che resterà esposta sul fronte orientale.

Anche perché non è chiaro cosa accadrà della NATO. Sono almeno due decenni che l’America chiede agli europei di fare la loro parte nella difesa del Vecchio Continente. La tesi del Pentagono, infatti, è che le forze americane non sarebbero in grado di reggere a un conflitto simultaneo su due fronti, Europa e Asia. Di conseguenza, l’Europa deve prepararsi a difendere se stessa, liberando risorse e forze americane per la sfida del Pacifico.

Questa divisione dei compiti sarebbe potuta avvenire in modo concordato e ordinato, se gli europei si fossero preparati invece che dileguati. Ma poiché non è stato così, la scossa viene imposta in modo traumatico da Trump. E’ improbabile che l’America esca dalla NATO; ma la Casa Bianca forzerà gli europei ad assumersi compiti e costi della difesa convenzionale (cosa giusta) e darà poche garanzie sulla dissuasione nucleare e l’articolo 5 (cosa sbagliata se stiamo parlando di un’alleanza militare). Nella logica transattiva di Trump, una “NATO minima” è una leva che serve all’America per mantenere un’influenza in Europa e per fare pesare la sicurezza su altri tavoli: i rapporti energetici e commerciali, per esempio.

Il calcolo, allora, diventa nostro: quale è il trade-off accettabile fra costi e benefici di un’alleanza asimmetrica con un’America che sembra detestare, più che amare, l’Unione Europea? La risposta a questa domanda politica è decisiva per orientare gli sforzi ormai ineludibili verso la difesa comune. Il guaio è che quando l’America riduce il suo impegno diretto nel Vecchio Continente, l’Europa tende a dividersi. E’ un lusso che questa volta non possiamo permetterci.

 

 


*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 21/02/2025

 

 

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