Il tornante della politica turca: dal voto amministrativo un avvertimento a Erdogan

La larga vittoria dell’opposizione alle elezioni amministrative in Turchia dice agli osservatori soprattutto due cose. La prima e più importante, che la democrazia turca resta vitale e plurale nonostante i contestati mandati di Recep Tayyp Erdogan: lo scorso anno gli elettori gli hanno concesso il terzo da Presidente, ma considerando anche quelli da Primo ministro, è al potere dal 2003. Nonostante il fallito colpo di stato del 2016, la partecipazione alla guerra in Siria e le nuove violente tensioni alimentate contro la componente curda, e la repressione nei confronti dei centri di potere indipendenti, come media e università. E nonostante, infine, l’allontanamento politico e strategico dall’Unione Europea (non che quest’ultima della democrazia sia il faro, sia chiaro), in favore di intese indipendenti nei vari teatri in cui la Turchia si proietta, come il Caucaso e il Mar Nero, la Siria e la Palestina, il Mediterraneo orientale e la Libia, e il rifiuto di partecipare alle sanzioni occidentali contro la Russia di Putin.

Il secondo messaggio sottolinea invece quello che era stato indicato da molti come un grave errore strategico dell’opposizione alle elezioni presidenziali dello scorso maggio, ossia la scelta di un candidato di compromesso, ma niente affatto trascinatore, invece del popolare sindaco di Istanbul Ekrem Imamoglu, del Partito repubblicano popolare (CHP). La grave crisi economica, con l’inflazione galoppante, e le polemiche attorno alla gestione dei soccorsi dopo il devastante terremoto di pochi mesi prima avevano fatto ritenere possibile una sconfitta del presidente uscente, ma Kemal Kılıçdaroglu perdeva contro Erdogan, seppure al ballottaggio, 52 contro 48%. Ed Erdogan vinceva comunque nelle zone più povere del Paese, e (stra)vinceva anche nelle regioni colpite dal sisma.

Stavolta, invece, l’opposizione si è presa una rivincita: Imamoglu è stato rieletto per un secondo mandato alla testa della città più popolosa d’Europa (16 milioni di abitanti) con il 51% dei voti, contro il 40 del candidato del partito di Erdogan. Consapevole della popolarità del sindaco uscente, il capo dello Stato aveva moltiplicato gli ostacoli politici e legali per impedirne l’azione amministrativa, cosa che restituisce ancor più significato a questa vittoria. Il valore di Istanbul nella politica turca è enorme, ed Erdogan ne è consapevole proprio perché il municipio della città è stato anche il suo trampolino di lancio: ne è stato sindaco dal 1994 al ’98. Istanbul è una città-mondo; porta all’erario la metà delle entrate fiscali del Paese, e da sola rappresenta un terzo del sistema economico. Governarla significa avere una fonte inesauribile di prebende e clientelismo per gli uffici amministrativi, e un accesso senza paragoni alle risorse pubbliche e private che gravitano sulla Turchia.

Il sindaco di Istanbul Imamoglu arringa la folla durante un comizio pre-elettorale

 

’L’opposizione potrà dunque contare su questo terreno fertile per lasciar crescere la sua proposta politica: le prossime presidenziali sono previste nel 2028. Intanto però l’affermazione alle amministrative offre una base promettente e di ampia portata: non c’è infatti solo il risultato di Istanbul, ma anche un filotto di vittorie nelle città più grandi e lungo la costa del mare Egeo e del Mediterraneo. Inclusa la capitale Ankara, dove l’uscente Mansur Yavaş è stato rieletto trionfalmente. E poi Smirne, Bursa, Antalya… E se queste potevano anche essere immaginate, dato che si tratta di zone dove l’opposizione è sempre stata abbastanza presente, molto meno scontati sono stati i risultati positivi in vari distretti rurali e sulla costa del Mar Nero, dove i partiti anti-Erdogan nemmeno osavano pensare di potersela giocare.

Erdogan insomma ha capitalizzato alle scorse presidenziali la sua popolarità – certamente maggiore di quella del suo partito, l’AKP – ottenendo da una maggioranza di elettori turchi il mandato per affrontare i pressanti problemi del Paese anche grazie all’esperienza accumulata e al sistema di potere impiantato nel ventennio passato alla guida dello Stato. Come spesso accade in questi casi, infatti, i partiti di opposizione penano a costruire una proposta altrettanto robusta, ma possono affermarsi se capaci di approfittare delle debolezze del rivale.

Il partito più votato nei distretti della Turchia alle amministrative del 2024

 

Questa tornata amministrativa è stata usata dai sostenitori di Erdogan per mandare un messaggio: “non siamo soddisfatti”. Alcuni di loro si sono astenuti, altri hanno votato per il Nuovo Partito Sociale, una formazione islamista che con il 7% si è scoperta la terza più votata: un pericoloso concorrente conservatore per l’AKP. Il partito di Erdogan ha perso 200mila iscritti negli ultimi mesi.

Perché non sono soddisfatti? La crisi economica continua a essere molto preoccupante, e l’inflazione sta mangiando nemmeno troppo gradualmente tutti i progressi economici di cui aveva beneficiato la nuova classe media della Turchia. Il ministro delle Finanze e il governatore della banca centrale chiamati da Erdogan dopo le presidenziali dello scorso maggio hanno lanciato una cura monetaria restrittiva che duole sul portafogli di tanta gente: per contrastare un’inflazione al 60%, i tassi d’interesse sono stati portati al 40%. Negli anni precedenti, invece, scelte del tutto eterodosse avevano dato la priorità al sostegno alla crescita, trascurando di correggere le debolezze strutturali del Paese: Erdogan si era probabilmente così riassicurato la rielezione del 2023, ma al costo di aggravare la situazione generale della Turchia, oggi ben più difficile da rimediare.

 

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Inoltre, il sistema-AKP ha smesso di selezionare personale politico in base al merito e alla capacità, cosa che era la sua forza nella fase iniziale, e non offre in questo momento candidati capaci di convincere l’elettorato: fenomeno a cui non è estranea la foga del leader nell’eliminare tutti i potenziali sfidanti interni, tanto che alcuni temono che voglia cambiare la Costituzione per potersi presentare anche nel 2028. Erdogan ha imposto quindi come candidato nella metropoli sul Bosforo un anonimo burocrate di Ankara che non gli facesse ombra, un fedelissimo autore di un condono edilizio che ha aggravato le conseguenze del terremoto, e ha guidato la campagna in prima persona, spendendo tre volte tanto il suo avversario: con lo slogan “riprendiamoci Istanbul” ha tenuto una serie di comizi in città nell’ultima settimana, culminati nella veglia di preghiera pre-elettorale a Hagia Sophia.

Ma le divinità della politica non hanno prestato orecchio, stavolta. Il CHP è tornato primo partito dopo vent’anni anche grazie al rinnovamento dei suoi vertici: l’ex farmacista Özgür Özel ha sostituito Kılıçdaroğlu alla sua testa, con il sostegno di Imamoglu. Özel si è rivolto ai suoi dopo il voto con le lacrime agli occhi – non c’è pericolo che teatralità ed emotività scarseggino nell’arena pubblica del Paese – certificando “la nascita di una nuova politica in Turchia”. “Il periodo di un uomo solo al comando è finito”, ha ribadito Imamoglu parlando dal tetto di un pullman scoperto a decine di migliaia di sostenitori, diretto ovviamente a Erdogan, ma riferendosi inconsciamente al problema principale del suo partito: gli infiniti litigi e le faide interne che lo indeboliscono. Erdogan dal canto suo ha riconosciuto la sconfitta, che per quanto detto ha un carattere innegabile di rovescio personale, garantendo alla folla accorsa ad ascoltarlo che ricostruirà la fiducia perduta e che “vi amo tutti follemente”. I sostenitori dell’opposizione sono scesi in piazza a festeggiare.

 

 

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