In secondo luogo, il presidente americano ha un rapporto difficile con i tempi tipici della politica (tanto interna quanto internazionale): il motivo sta nel suo atteggiamento impaziente, fortemente orientato alla ricerca di qualche risultato immediato, con scarsissima fiducia nei funzionari governativi (perfino quando sono i suoi più stretti collaboratori, scelti personalmente) e pochissimo interesse per i dettagli negoziali. Ne deriva un’abbondanza di iniziative e una penuria di azioni conseguenti di tipo organizzato; continua a ripetersi così una sequenza di annunci, deliberato aumento delle aspettative, e (da parte del presidente) frustrazione apertamente dichiarata per le complicazioni che sorgono nella fase di attuazione. Ha risentito di questo approccio l’intero funzionamento della macchina governativa americana: lo si è visto sul piano legislativo interno (si pensi alla confusione nella gestione dei migranti), sul piano commerciale (si pensi alla raffica di dazi con cui Washington ha creato forti tensioni simultaneamente con decine di Paesi, alleati e non), sul piano militare e della sicurezza (si guardi al forte aumento delle spese per la difesa a fronte di gravi incertezze sul futuro delle alleanze ma anche sui rapporti con i probabili avversari).
Nell’era Trump, insomma, molte cose sono diverse dal passato. A circa un anno e mezzo dal suo insediamento, è però possibile che il presidente stia sviluppando un diverso rapporto con il fattore tempo: la fretta sta lasciando il posto a una certa rassegnazione – nonostante l’approccio e la comunicazione della Casa Bianca rimangano aggressivi e orientati al risultato rapido. La realtà è che, all’interno, i meccanismi di governo – a cominciare dal ruolo del Congresso, che pure è stato finora a maggioranza repubblicana – stanno frenando inesorabilmente la spinta che proviene dal Capo dell’Esecutivo; all’esterno, si sta rilevando difficile far valere la superiorità degli Stati Uniti su molti dossier simultaneamente, mentre sia partner che avversari si stanno adattando a una leadership americana in scala ridotta e di tipo erratico.
Si può anche ipotizzare che queste fossero in effetti le vere intenzioni di Donald Trump: coltivare la propria base elettorale (limitata e minoritaria in termini nazionali, ma solidissima e forse sufficiente a vincere di nuovo), e intanto ridurre drasticamente il tasso di prevedibilità delle politiche americane all’estero per crearsi nuovi spazi di manovra che i suoi predecessori non avevano.
E’ un’intepretazione possibile, che fa comunque emergere un motivo di grande preoccupazione. Quella che manca ancora quasi del tutto è infatti la pars construens: dopo aver scritto in centinaia di tweet e certificato anche in forme più ufficiali l’inadeguatezza – e forse la fine – del sistema internazionale che conoscevamo, resta il grande quesito su quale sia il piano alternativo che l’amministrazione vuole seguire. E inoltre: di quanta influenza dispongono realmente gli Stati Uniti se si liberano dai vincoli delle vecchie alleanze, regole e convenzioni? Come viene gestita un’arena globale apertamente competitiva – senza cioè i fronzoli costosi del multilateralismo, direbbe Trump – una volta superata la fase della Pax Americana? A giudicare dai primi risultati pratici, non si vede traccia di una valida alternativa: gli scontri commerciali con Cina ed Europa (o meglio Germania) non sono “facili da vincere” per Washington (e stanno innescando le dinamiche di una escalation, per quanto ancora controllata); la Corea del Nord resta un problema insoluto, nonostante il vertice con Kim Jong Un e le grandi aspettative sollevate prima e dopo; l’Iran cerca sponde economiche e diplomatiche a Pechino e Mosca invece di prepararsi a capitolare sotto il peso delle sanzioni; il riconoscimento americano di Gerusalemme capitale non sembra aiutare Israele a superare i suoi annosi problemi regionali; l’Arabia Saudita non riesce a svincolarsi dal disastro della guerra in Yemen (mentre il suo futuro interno è quantomeno incerto). Anche sui due maggiori conflitti che vedono la presenza di truppe americane sul terreno, cioè Iraq/Siria e Afghanistan, l’amministrazione in carica non ha affatto stravolto la politica preesistente, ma al più introdotto qualche aggiustamento senza alcun effetto tangibile di rilievo.
Si potrebbero aggiungere certamente vari altri dossier sui quali la tecnica “transactional” dell’amministrazione Trump ha attivato dinamiche di cambiamento senza però poterle indirizzare in modo favorevole agli USA – e tantomeno a qualche tipo di interesse collettivo. In altre parole, si sono rotti vecchi equilibri (che certamente erano precari) senza costruirne di nuovi.
Su queste basi, gli elettori americani potrebbero in ogni caso rieleggere il presidente ad un secondo mandato nel 2020: come mostrano sistematicamente i sondaggi, il suo consenso si è stabilizzato ad un livello che gli garantisce un blocco politico-sociale molto rilevante (a inizio agosto, la media delle rilevazioni gli assegnava un tasso di approvazione di circa il 42%). Del resto, è ben noto che il fattore decisivo al momento del voto è quasi sempre quello dei trend economici, o meglio della percezione diffusa delle prospettive economiche: in tal senso, la crescita del PIL è solida (come peraltro era già all’insediamento di Trump) e il taglio delle tasse ha avuto un certo effetto di ulteriore stimolo – pur con le incertezze legate alle dispute commerciali, e in misura minore al debito pubblico e allo scarso interesse dell’amministrazione per i settori a più alto valore aggiunto.
Come sempre accade in politica, coltivare il proprio nucleo elettorale a discapito di un possibile ampliamento del consenso è una scommessa. Ci dirà il tempo se sarà vincente per Trump. E il tempo stringe: a novembre gli elettori per il Congresso e le istituzioni locali daranno una valutazione tutta interna sull’operato dell’amministrazione. Nel corso del 2019, poi, Trump dovrà decidere se costruire una coalizione in parte nuova per vincere le elezioni del 2020 – sempre che abbia la pazienza di continuare con la vita politica.