Il sultanato gentile: l’Oman tra incertezza e futuro

Una leggendaria storia persiana narra le avventure di Sinbad il marinaio che, nel tempo lontano mille anni del Califfato abbaside, è il protagonista di viaggi incredibili. Tra luoghi magici, mostri e fenomeni soprannaturali, l’uomo di mare vive fantastiche peripezie tra l’Africa orientale e l’Asia meridionale. I racconti presero corpo a partire dalle esperienze dei mercanti e dei navigatori dell’Oceano Indiano. Questi uomini, esperti di onde e correnti, hanno solcato per secoli le acque insidiose del Golfo e del Mare Arabico con i loro preziosi carichi di spezie, incenso, perle e datteri. Spesso partivano dai porti dell’Oman, tra Salalah, nella regione del Dhofar al confine con lo Yemen, e la penisola del Musandam. Le loro fatiche hanno lasciato in eredità ai suoi abitanti un’innata predisposizione al commercio e all’incontro con gli stranieri.

Tali particolarità culturali, unite alla tolleranza propria dell’Islam ibadita, la corrente religiosa diffusa nella zona, fanno dell’Oman contemporaneo – pur con meno di 5 milioni e mezzo di abitanti – un attore primario nel complicato scacchiere regionale. Non mancano però fattori di incertezza in un Paese che cerca comunque di guardare con fiducia al futuro.

Mascate, la capitale dell’Oman

 

Una tipica petromonarchia del Golfo

Il 10 gennaio 2020, per questo sultanato che la geografia ha collocato in posizione strategica, nel sud-est della penisola arabica e all’imboccatura del nevralgico Stretto di Hormuz, è finita una lunga epoca. Dopo quarant’anni di regno, muore Qabūs bin Sa’id al Sa’id, artefice dell’apertura del Paese al mondo e allo sviluppo. Il sultano era asceso al trono nel 1970, a seguito di un colpo di Stato incruento, che aveva deposto il padre, Sa’id bin Taymur. Il vecchio sovrano, protagonista dell’ultima fase del protettorato britannico, aveva adottato politiche ultraconservatrici e, dopo essere scampato a diversi attentati, introdusse misure al limite della paranoia. Era vietato fumare, portare occhiali da sole, giocare a calcio e persino parlare con altre persone per più di quindici minuti di seguito. Ecco perché la popolazione, stanca di quella cappa di piombo così soffocante, accolse con favore l’iniziativa del giovane Qabūs. La loro fiducia non sarebbe stata tradita.

Il nuovo sultano aprì all’Oman le porte della modernità. Grazie allo sfruttamento massiccio dei giacimenti di idrocarburi, il Paese entrò nel club ristretto delle ricchissime monarchie del Golfo. Il sistema si reggeva e, ancora oggi, si basa su un patto sociale simile a quello sottoscritto tra regnanti e cittadini negli altri Stati esportatori di petrolio della penisola arabica. Il settore pubblico si preoccupa di garantire agli omaniti una vita tranquilla, sussidi ai prezzi dei generi alimentari e di altri prodotti di largo consumo. A questo si aggiungono opportunità quasi gratuite di studio all’estero per i giovani e cure mediche su livelli simili a quelli dell’Occidente industrializzato. In cambio, i cittadini hanno accettato di non immischiarsi troppo nelle faccende politiche.

Le istituzioni rappresentative del corpo elettorale hanno poteri ancora oggi molto limitati. Negli anni Novanta del secolo scorso, il sultano ha acconsentito alla formazione di un’assemblea di 83 membri, eletti a suffragio universale a partire dal 2003. Le sue funzioni sono in prevalenza consultive e il potere legislativo è esercitato con numerosi limiti. Ciononostante, gli omaniti non hanno mostrato particolare frustrazione per tale condizione e il gradimento verso la casa reale resta molto alto. Solo nel 2011, sull’onda delle proteste iniziate in Tunisia e dilagate in larga parte del mondo arabo, furono avanzate richieste di maggiore coinvolgimento dei cittadini nella gestione del Paese. Alcune concessioni politiche, soprattutto a livello di enti locali, e corposi incentivi di tipo economico evitarono episodi di violenza diffusa.

Il sultano Qabūs bin Sa’id al Sa’id, morto nel 2020

Qabūs ha così potuto gestire il potere sempre attraverso il ricorso a persone di fiducia, spesso membri della stessa casa reale. Le posizioni apicali negli apparati statali, dalle forze armate alla rete diplomatica, dalla banca centrale al vertice degli undici governatorati in cui il Paese è suddiviso, sono riservate a una fascia molto ristretta della popolazione. Mentre gli impieghi pubblici, soprattutto nella difesa e nell’amministrazione, sono considerati un ammortizzatore sociale al quale ricorrere per occupare una parte della forza lavoro altrimenti destinata alla disoccupazione.

 

I progetti del nuovo sultano

Tale modello non ha subito modifiche significative con la morte di Qabūs all’inizio del 2020. Il suo cugino e successore, Haytham bin Tariq al Sa’id, si sta concentrando di più sulle sfide economiche, che il Paese dovrà affrontare nei prossimi anni. Senza però trascurare la collocazione internazionale dell’Oman e i rischi di sfilacciamento del tessuto sociale. Quest’ultimo aspetto è influenzato anche da fattori territoriali. Le città portuali e mercantili della costa, base solida del sostegno alla monarchia, hanno conosciuto uno sviluppo più veloce e consistente rispetto ai centri dell’entroterra. Lontano dal mare, prevalgono ancora le usanze tradizionali e il benessere derivante dalla rendita petrolifera è meno evidente. Corpose assunzioni di giovani nella pubblica amministrazione e nell’esercito permettono di tenere a bada una disoccupazione giovanile potenzialmente pericolosa in un Paese dove due persone su tre hanno meno di 35 anni, e la popolazione è raddoppiata negli ultimi quindici anni.

 

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Non mancano tuttavia periodiche esternazioni di malcontento. Gli episodi più recenti e significativi in quanto ad ampiezza e consistenza hanno avuto luogo a metà del 2021. Essi hanno coinvolto tutto il territorio nazionale e sono stati scatenati dalle difficoltà dello Stato a mantenere taluni sussidi per via del crollo delle quotazioni del petrolio durante i mesi più duri della pandemia da Covid-19. I manifestanti hanno denunciato soprattutto le disuguaglianze di una società saldamente nelle mani di una ristretta élite mercantile, concentrata nelle città della costa e alleata con la casa regnante. Come al solito, una nuova ondata di assunzioni nel settore pubblico e il ripristino dei sussidi hanno riportato la calma.

I manifestanti si proteggono dallo spietato sole omanita durante una delle proteste del maggio 2021 a Suhar.

 

Il sultano ha mostrato però di non sottovalutare le cause nascoste del malcontento che cova nelle profondità di una società pacifica e operosa. La sostenibilità economica del patto sociale sopra citato non può essere assicurata a lungo in Oman. Il Paese dispone di riserve accertate di idrocarburi molto inferiori rispetto ai vicini. Anche se, a giugno di quest’anno, il ministero dell’Energia e dei Minerali ha comunicato la scoperta di importanti giacimenti, che permetteranno di aumentare la produzione nazionale da 50 a 100mila barili al giorno nei prossimi due o tre anni. Il sultanato, secondo gli ultimi dati ufficiali, può contare ancora su 5,2 miliardi di barili di oro nero e su 24mila miliardi di metri cubi di gas. Per dare un termine di paragone, le riserve petrolifere del Qatar ammontano a circa 26 miliardi di barili.

La consapevolezza che l’era del benessere garantito dagli idrocarburi non sarà infinita si è fatta strada nella società omanita già da tempo. La necessità di differenziazione economica ha assunto carattere prioritario molto prima rispetto agli altri Paesi del Golfo. Già il sultano Qabūs, negli ultimi due decenni del suo regno, ha cercato di favorire settori diversi come le costruzioni, il turismo e le tradizionali attività di pesca e commercio marittimo. Ciononostante, il 60% delle entrate dello Stato dipende ancora dal petrolio. Il nuovo sovrano ha deciso di incrementare gli sforzi per affrancare l’Oman dall’oro nero entro la metà di questo secolo. Alla fine del 2020, gli obiettivi da raggiungere sono stati definiti in maniera chiara nella Oman Vision 2040. Il piano è simile a iniziative già adottate da altre petromonarchie, come la Saudi Vision 2030, che Riad sta cercando di implementare fin dal 2016.

 

Gli obiettivi ambiziosi della Oman Vision 2040

L’Oman, in poco meno di due decenni, vuole portare la ricchezza prodotta da attività non legate agli idrocarburi al 90% del PIL, con il turismo in grado di contribuire a un decimo del valore aggiunto. Per raggiungere tale obiettivo, l’Oman punta a creare un ambiente favorevole agli investimenti diretti esteri, ad esempio ricorrendo ad agevolazioni fiscali e a zone economiche speciali collegate ai porti per favorire lo sviluppo della logistica e della manifattura. Il rafforzamento dei settori dell’economia diversi dall’industria petrolifera è necessario anche per mettere al riparo il Paese dalla volatilità dei prezzi del barile. La crescita è stata infatti anemica nel biennio 2020-21, proprio quando la pandemia ha fatto crollare i consumi petroliferi globali e, di conseguenza, i prezzi.

Attraverso la differenziazione del suo sistema economico, l’Oman punta a una crescita media del 5% del PIL in termini reali nei prossimi anni. Anche per questo, sono previsti investimenti consistenti in ricerca e sviluppo, per attrarre imprese high tech. Il sultanato vuole figurare tra i primi venti Paesi al mondo, raggiungendo un punteggio maggiore a 51,98 nel Global Innovation Index, pubblicato ogni anno dalla World Intellectual Property Organization per misurare la capacità e il successo negli sforzi di innovazione degli Stati. Il tutto in un ambiente dove la concorrenza e la competizione tra le imprese generino vantaggi per i consumatori e un ambiente attrattivo per lavoratori altamente qualificati sia nazionali che stranieri, attratti da una fiscalità di vantaggio ma non insostenibile per le casse dello Stato. A questo proposito, l’Oman sarà il primo Paese del Golfo a introdurre una blanda tassazione sul reddito, che dovrebbe trovare applicazione a partire dal 2023, dopo aver adottato una tassa sul valore aggiunto già da qualche anno.

La particolarità di Oman Vision 2040 sta nell’attenzione anche per le questioni ambientali e sociali. Il Paese vuole rientrare tra i primi venti anche nell’Environmental Performace Index, creato dalle università di Yale e della Columbia per qualificare le prestazioni ambientali degli Stati. La tenuta del patto sociale passa anche per la progressiva riduzione dei costi di funzionamento e per l’aumento dell’efficienza della macchina pubblica. L’idea è di abbandonare il ricorso alle assunzioni nell’amministrazione come ammortizzatore sociale, incentivando l’ingresso di forza lavoro nazionale nel settore privato, fino ad almeno il 40% degli occupati, cifra che oggi si aggira sul 30%. Tale obiettivo passa per lo sviluppo del sistema universitario nazionale, incentivando i percorsi di formazione in ambito scientifico e tecnologico.

Il piano è dunque molto di più di un semplice sforzo, per quanto già di per sé consistente, finalizzato ad affrancarsi dalla rendita petrolifera. Il sultano Haytham bin Tariq al Sa’id vuole lasciare in eredità alle prossime generazioni un Paese con un tessuto sociale più compatto, sanando le fratture interne dovute alle disuguaglianze nella distribuzione del reddito e delle opportunità. Un retroterra più solido sul piano economico e sociale consente all’Oman di rafforzare la sua proiezione internazionale e di conservare quel ruolo particolarissimo storicamente riconosciutogli da tutti gli attori presenti nella regione.

 

Le peculiarità della collocazione internazionale dell’Oman

Tale posizione deriva da fattori diversi. In primo luogo, l’Oman non ha mai mostrato velleità egemoniche sull’area del Golfo, pur essendo pienamente integrato nella dialettica regionale. In qualità di membro del Consiglio di Cooperazione del Golfo che, dal 1981, riunisce le petromonarchie della penisola arabica, Mascate ha svolto il ruolo di paziente costruttore di ponti tra Stati simili sì sotto molti punti di vista ma sempre gelosi delle loro prerogative.

Questo ruolo è emerso anche in occasione della crisi tutta interna al mondo sunnita, tra Qatar da una parte e Arabia Saudita ed Emirati Arabi Uniti dall’altra. Riad e Abu Dhabi non tollerano le aspirazioni di Doha a seguire una politica estera spregiudicata. Il Qatar non disdegna infatti il dialogo e la cooperazione economica con Stati considerati rivali se non addirittura nemici dai sauditi e dagli emiratini, in primis l’Iran e la Turchia. Tale approccio ha indotto i due più grandi e potenti vicini a rompere le relazioni diplomatiche e a decidere il blocco delle frontiere terrestri e marittime nonché la chiusura del loro spazio aereo ai velivoli del Qatar tra il 2017 e l’inizio del 2021. In quei mesi, l’Oman non si accodò alle decisioni di Riad e Abu Dhabi, svolgendo un delicato lavoro di mediazione tra le parti, fino alla ricomposizione delle fratture e all’avvio di un processo di distensione.

 

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Un altro fattore che fa dell’Oman un pontiere ideale è di ordine religioso e culturale. Come già accennato, nel Paese è prevalente l’Islam ibadita, praticato dai tre quarti della popolazione, che costituisce una terza via tra sunniti e sciiti. L’ibadismo coniuga il rigore morale a un atteggiamento di rispetto e tolleranza verso le altre confessioni e religioni. La dottrina attribuisce molta importanza alla purezza delle azioni e alla correttezza della condotta individuale più che all’affiliazione comunitaria. Questo ha dei riflessi nelle relazioni con persone di fede diversa. Avere rapporti di amicizia con una persona onesta di un altro credo non solo è permesso ma è considerato conforme all’esempio del profeta Muhammad. Nelle relazioni internazionali, tali principi religiosi si traducono in una naturale predisposizione all’incontro e al compromesso.

Non è quindi un caso che l’Oman intrattenga rapporti stabili e cordiali anche con l’Iran. Mascate ha svolto un ruolo molto delicato, anche se poco evidenziato dai media, nei negoziati che portarono all’accordo sul nucleare del 2015, ospitando innumerevoli incontri segreti tra emissari statunitensi e iraniani. Nel conflitto tra il governo yemenita, riconosciuto dalla comunità internazionale, e i ribelli sciiti houthi, appoggiati da Teheran, l’Oman ha favorito il dialogo per risolvere diverse tra le dispute più spinose tra le parti in conflitto, come lo scambio di prigionieri. Inoltre, le fasi iniziali dei colloqui che hanno portato al cessate il fuoco annunciato a marzo a Riad hanno avuto luogo proprio in territorio omanita, con il coinvolgimento dei sauditi.

Il “sultanato gentile”, così definito dai viaggiatori sorpresi dalla cordialità dei suoi abitanti e dalle bellezze di un paesaggio non solo arido e desertico, guarda insomma con fiducia al futuro. Le sfide interne e internazionali certo non mancano. Ma il Paese sembra sapere bene quello che vuole e, forte della sua società giovane e aperta, è pronto a fare gli sforzi necessari a superare gli elementi di debolezza ereditati dal passato. Il segreto è di valorizzare le entrate ancora assicurate dal petrolio per investire in un domani più verde e giusto. Oman Vision 2040 traduce in obiettivi concreti tale approccio. Solo il tempo dirà se i risultati saranno all’altezza delle aspettative, ma la strada che porta al cambiamento è stata comunque imboccata.

 

 

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