Vladimir Putin ha riconosciuto l’indipendenza dei territori separatisti del Donbass all’interno dei confini dell’Ucraina, e ha inviato l’esercito nella regione con l’ordine di “mantenervi la pace”. Dopo aver ufficializzato l’esistenza, per il Cremlino, della “Repubblica Popolare di Donetsk” e della “Repubblica Popolare di Luhansk”, e dopo una dura allocuzione trasmessa in televisione, Putin ha chiesto alla Duma di approvare la decisione, e di ratificare gli accordi di cooperazione e sostegno con le due repubbliche ritagliate dal territorio ucraino. Qui c’è un primo nodo geografico di grande importanza: non sono stati precisati i confini dei territori riconosciuti da Mosca, se quelli occupati dalle forze separatiste, o i confini ufficiali delle province. Al momento infatti i due ambiti non corrispondono affatto.
Il parlamento russo ha specificato che gli accordi in questione (la durata è di dieci anni) prevedono che le parti assicurino la propria sicurezza mediante la condivisione delle basi militari e la difesa comune delle frontiere. Si tratta del fondamento giuridico per la presenza di truppe russe nei due territori, perché naturalmente la “cooperazione” e la difesa “comune” significano che sarà Mosca ad occuparsi di garantire l’esistenza dei due territori.
I due territori separatisti
Esclusa la Crimea, quelle di Donetsk e Luhansk sono due Oblast (province) dove la presenza di cittadini che si definiscono etnicamente russi è più forte (38% e 39%) e largamente maggioritaria è la quota di persone che parlano russo (75% e 68%). Le due percentuali non coincidono perché molti dei russofoni si definiscono comunque ucraini. Donetsk è la provincia più popolata del Paese, con 4 milioni di abitanti, mentre Luhansk ne conta 2. Considerando che gli abitanti dell’Ucraina ammontano a 41 milioni, si tratta anche dal punto di vista socio-economico di una perdita molto significativa per il Paese. La provincia di Donetsk da sola copre più della metà di tutto l’acciaio, il carbone e il ferro prodotti in Ucraina, e comprende l’importantissimo porto di Mariupol, sul Mar d’Azov.
I separatisti filo-russi non controllano l’intera estensione delle province, ma circa la metà dell’Oblast di Donetsk e un terzo di quello Luhansk, nelle zone più vicine ai confini con la Russia e popolate dai russi. Hanno occupato i capoluoghi, Donetsk e Luhansk appunto, ma non il porto di Mariupol – tenuto dai separatisti solo per due mesi, nel 2014, e poi riconquistato dalle forze ucraine. Le zone non occupate sono anche quelle dove la maggior parte della popolazione è contraria alla separazione dall’Ucraina. Esiste la possibilità, comunque, che la Duma riconosca come “repubbliche” solo le zone occupate e non l’intero territorio delle due Oblast.
Nella storia recente, l’Oblast di Donetsk – ribattezzata Stalino dal 1938 al 1960 – è stata la base della fazione politica filo-russa attiva in Ucraina. Già nel referendum del 1991 sull’indipendenza dall’Unione Sovietica, nella provincia i sì raggiunsero uno dei livelli più bassi del Paese, l’84%, ma considerando l’astensione si dichiarò d’accordo solo il 64% degli elettori, contro il 90% di altre regioni. Nel 1994, nelle Oblast di Donetsk e Luhansk si tenne un referendum che chiedeva la promozione del russo a lingua ufficiale del Paese insieme all’ucraino, e a lingua ufficiale delle due province. Tra i votanti vinsero i sì, ma il governo di Kiev annullò il voto. In quegli anni a Donetsk si sviluppò il cartello elettorale del Partito delle Regioni, da cui nacque la candidatura di Viktor Yanukovich alla presidenza. Yanukovich si rifugiò poi a Mosca dopo le rivolte del 2013-4 di Euro-maidan, quando fu accusato di brogli elettorali e alto tradimento, e dovette abbandonare la presidenza ottenuta nel 2010. Il partito, lentamente, si dissolse.
Le due “repubbliche popolari” sono state proclamate nell’aprile del 2014, subito dopo l’annessione della Crimea alla Russia – in seguito alla cacciata del filo-russo Yanukovich dalla presidenza dell’Ucraina. Il loro riconoscimento da parte di Mosca segna la fine del moribondo processo di pace stabilito a Minsk nel 2015 sotto l’egida di Francia e Germania, secondo il quale Donetsk e Luhansk dovevano tornare sotto la piena sovranità dell’Ucraina, in cambio di una grande autonomia. Putin ha specificato che la necessità di proteggere le due repubbliche scaturiva dal “genocidio” condotto contro i russi da parte delle autorità ucraine, e che l’Ucraina è comunque un paese “artificiale” costruito dal Cremlino ai tempi dell’URSS, e inseparabile dalla Russia.
Benché l’Ucraina venga additata da Putin come una specie di esperimento di laboratorio di matrice sovietica, strappare le due province filo-russe all’Ucraina significa nei fatti, da un lato riconoscere l’esistenza e il territorio dell’Ucraina – in pratica, tutto quello che non è Donetsk e Luhansk. Dall’altro, rendere l’Ucraina etnicamente più omogenea, e spingerla quindi politicamente più lontana da Mosca. Se i candidati filo-russi hanno avuto finora la propria base elettorale e sociale a Donetsk e Luhansk, questa base non ci sarà più in futuro, e la politica ucraina sarà definita da attori e interessi molto meno legati alla Russia – e non certo entusiasti di collaborare con Mosca.
Comunque, non sembra che Mosca voglia stavolta seguire la strada dell’annessione per Donetsk e Luhansk, come fatto per la Crimea – anche se non si può certo escludere un referendum più avanti, al fine di una vera annessione, che in Crimea fu molto rapido. Il Cremlino sembra comunque aver optato – almeno in questa prima fase – per lo schema seguito per i territori di Abkazia e Ossezia del Sud, tolti alla Georgia, e attualmente riconosciuti come “repubbliche” da Russia, Venezuela, Nicaragua, Nauru e Siria. In Abkazia e Ossezia del Sud, in seguito alla vittoria dei separatisti, la popolazione di origine georgiana è stata perseguitata, circa la metà è emigrata.
Anche in questo caso, nessuno per il momento ha riconosciuto le “repubbliche popolari di Donetsk e Luhansk”. Il presidente ucraino Volodymir Zelensky ha denunciato la violazione della sovranità e dell’integrità ucraina, ha dichiarato che non accetterà la cessione “di una singola parcella del territorio nazionale”, e ha chiesto all’Occidente un sostegno “chiaro ed efficace”. L’intervento militare NATO resta escluso. Non così gli aiuti tecnico-militari.
La carta delle sanzioni
Gli Stati Uniti, da parte loro, si sono dichiarati pronti a sanzionare la Russia fino a escluderla dal sistema internazionale delle transazioni finanziarie (SWIFT), opzione già testata con successo con l’Iran. L’ambasciatore cinese all’ONU, come previsto, non ha condannato né sostenuto direttamente la Russia, ma si è limitato ad auspicare una risoluzione pacifica del conflitto. Da parte europea, la presidente della Commissione Ursula von der Leyen ha parlato di sanzioni “se la Russia attacca”, ma ha ribadito che l’Unione reagirà con “unità, fermezza e determinazione”. Berlino ha fatto sapere che il “processo autorizzativo” del gasdotto Nord Stream 2 tra la Russia e la Germania è stato bloccato – ma d’altronde il gasdotto, già pronto, non era in ancora in funzione proprio perché lo stesso “processo autorizzativo” era un pretesto per ritardarne l’apertura di fronte alle perplessità crescenti del mondo politico tedesco rispetto alla relazione con Mosca. L’idea di un pugno duro economico, però, non raccoglie l’unanimità sul continente europeo: il presidente francese Emmanuel Macron ha parlato di nuove sanzioni, sì, ma “mirate” e non generalizzate. Boris Johnson, da Londra, ha assicurato che il Regno Unito “colpirà duro”.
Gli interrogativi sull’effettiva efficacia delle sanzioni, tuttavia, restano. Quelle spiccate finora nei confronti della Russia hanno sì colpito l’economia del paese, ma non hanno affatto affievolito il potere di Vladimir Putin. I russi sono mediamente poveri – non che questa condizione gli sia stata estranea in passato – ma le casse e le riserve dello stato russo sono floride: permettono di affrontare nuove ristrettezze, anche se le sanzioni finanziarie colpissero il sistema bancario.
La Russia, a dicembre, aveva presentato le sue richieste agli Stati Uniti: un trattato bilaterale Mosca-Washington, che stabilisse il divieto per la NATO di accettare nuovi membri, e la proibizione di istallare basi militari in paesi appartenenti all’ex spazio sovietico. Inoltre, denunciava – non a torto – che gli accordi di Minsk fossero boicottati dalla stessa Ucraina. Al momento, il processo diplomatico per gestire la crisi del Donbass dev’essere riavviato quasi da zero. Il Cremlino ha chiesto all’Ucraina di fermare la sua “offensiva”. Visto che non c’è nessuna offensiva ucraina, è giusto chiedersi a cosa facciano riferimento queste parole – e in sostanza è proprio sui “fatti” riportati ma non del tutto verificati che si combatte già da settimane la battaglia mediatico-informativa tra Washington e Mosca.
Lo strumento di Putin
Si vedrà dunque presto se il riconoscimento delle due repubbliche coinciderà con un’offensiva militare russa anche su quelle parti delle Oblast di Donestk e Luhansk che restano sotto il controllo ucraino, oppure se la situazione resterà congelata. Può escludersi l’idea di un’invasione generale dell’Ucraina, un territorio immenso che anche un esercito molto più grande dei 150.000 soldati russi schierati ai confini farebbe molta fatica a controllare: l’Ucraina è il paese più esteso di tutto il continente europeo. Ma l’opzione del conflitto localizzato non può essere messa da parte, perché tantomeno la esclude Vladimir Putin, che l’ha messa in pratica di recente in varie occasioni.
Assicurandosi uno scenario di conflitto permanente, la Russia si garantisce contro l’ingresso dell’Ucraina nella NATO almeno nel breve periodo, ma non solo. Manda un messaggio alle popolazioni del vicinato russo che avessero delle velleità di emancipazione o democratizzazione – è il caso dei bielorussi o dei kazaki. Punisce la svolta filo-occidentale cominciata nel 2014 in Ucraina. Ottiene che non si parli più dell’oppositore Navalny e che l’annessione della Crimea sembri ormai un dato di fatto. Ha un motivo in più (le sanzioni) per giustificare il disastro dell’economia russa. Può tentare nuovamente di porsi agli occhi della sua opinione pubblica – che ovviamente ha seguito la crisi dagli schermi dei media controllati dal Cremlino – come vittima dell’Occidente e protettore dei russi. Ma, come detto, amputando il territorio ucraino si priva anche di un vettore di controllo e influenza dentro lo stato ucraino: ora non può più accusare Kiev di non rispettare gli accordi di Minsk. In più, spinge gli ucraini sempre più verso l’Occidente.
Per questo, può probabilmente dirsi che l’intensificazione della crisi ucraina sia uno strumento, piuttosto che un obbiettivo in sé, nella logica degli equilibri di potere interni e internazionali che tengono in sella Vladimir Putin da 23 anni.