Quando il primo ministro del Qatar, il 15 gennaio, è apparso su al-Jazeera, e ha annunciato il cessate il fuoco a Gaza, a Jenin in Cisgiordania è saltata l’elettricità. E non si è sentito che un fragore. Un F35 israeliano ha colpito il campo dei rifugiati. Era stato bombardato anche la sera prima. La guerra non è finita, qui: è solo cambiata.
La fine dell’unità palestinese
In queste ore, c’è solo silenzio. Silenzio, e sguardi bassi. Perché intanto, ora è definitivo, e irreversibile: per 467 giorni, e oltre 45mila morti e 10mila dispersi, la West Bank ha lasciato Gaza a se stessa. Hamas ha chiamato alle armi più volte: ma nessuno ha risposto all’appello. Né si sono avute manifestazioni. O iniziative di altro tipo. A Ramallah, non è stata trovata neppure un’intesa per andare al voto, a 19 anni dall’ultima elezione palestinese: e sostituire l’ormai 89enne Mahmoud Abbas. Il Day After, qui, è il momento della resa dei conti prima di tutto con se stessi. Ma poi, con Israele. Perché adesso, “sistemata” Gaza, è il turno della West Bank.
Sembrava che l’IDF sarebbe rimasto a presidiare il nord della Striscia. E a quel punto, con i coloni già accampati al confine, e pronti a trasferirsi, sarebbero rimaste le braci accese: e Gaza sarebbe diventata un Vietnam. Invece, l’IDF si ritirerà dall’intera Gaza. E tra le sue macerie, sarà piantata la bandiera dello stato palestinese. Di tutto il resto, non resterà niente. Solo, qui e lì, insediamenti palestinesi di una West Bank israeliana.
Dal 7 Ottobre, le colline intorno a Nablus hanno mutato fisionomia. Nuove case, nuove strade. Operai ovunque. E coloni ovunque. Era il tassello mancante. A breve, la West Bank sarà divisa in tre isole: il sud di Hebron, il centro di Ramallah, e il nord, appunto, di Nablus. Non si avrà nessuno Stato palestinese, qui. Non è un problema politico. Ormai da tempo, è un problema geografico senza più soluzione.
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Né Gaza compenserà mai quello che si è perso nella West Bank. Alla stampa viene detto che in cinque anni, sarà pronta. E sarà come Dubai. Ma basta parlare con i tecnici. Con gli urbanisti, gli economisti, gli ingegneri della futura missione ONU. La ricostruzione, dicono, richiede trent’anni. E molti, moltissimi andranno via. A Ramallah non è mai stato così facile avere un visto per gli Stati Uniti. E per la Spagna, da cui poi si va in Europa.
Hamas sostiene di avere vinto: perché i palestinesi sono tornati in prima pagina. Sì. Ma da morti. E intanto, la Palestina è sparita dalle mappe. Al Cairo, uno dei suoi mediatori è stato riconosciuto da dei profughi: e aggredito. L’obiettivo del 7 Ottobre era la fine dell’Occupazione. E invece, è finita Gaza.
Israele davanti alla sua fragilità
Il premier israeliano Netanyahu punta dritto verso il suo nuovo Medio Oriente. La vera svolta di questa guerra è stata il 27 settembre 2024: con l’eliminazione di Hassan Nasrallah. E lo sfaldamento di Hezbollah. Ora è forte di un mondo arabo in cui ognuno pensa a sé, e il sostegno ai palestinesi non è che retorica. In più, con Trump presidente, Israele non si fermerà fino a quando non avrà un diverso regime a Teheran. La Siria è emblematica. Conquistata Damasco, e recuperata giacca e cravatta, Mohammed al-Jolani ha glissato alle domande dei giornalisti su Israele, e sulla sua espansione nel Golan. Ha risposto laconico che la Siria è allo stremo. Che non è tempo di altra guerra.
Sembra una vittoria. Ma è davvero così? In realtà, Israele non è mai stato più fragile. Gli si sono uniti tutti contro. Il compromesso sulla Siria, in cui tutti hanno giocato un ruolo, Russia inclusa, ha spianato la via all’intesa su Gaza, perché ha inciso sul contesto, ma non è molto rassicurante. La Turchia ha avuto il ruolo guida. Rispetto agli anni della frattura tra sunniti e sciiti, e tra gli stessi sunniti, ora però sono tutti con al-Jolani. Fino a ieri, in confronto alla sua Hayat Tahrir al-Sham tutto era meglio: persino il dittatore Assad. Visto come argine ad al-Qaeda. E ai più estremisti. Ma ora, tutto è meglio di Israele, e viene fuori chiaramente dai dettagli dell’intesa su Gaza.
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La ricostruzione è affidata insieme all’Egitto, agli Emirati, alla Turchia e al Qatar. Che sono stati a lungo su fronti opposti. Con la “Primavera Araba” e contro. Con gli islamisti e contro. Con gli Stati Uniti e contro. Ora, le differenze restano, ma sono differenze: non più divisioni. E il silenzio su Israele è fuorviante, perché basta parlare con un qualsiasi arabo, o leggere l’arabo invece che l’inglese: c’è un rancore profondo contro Israele. A Gaza, si è superata ogni linea rossa. E va da sé, c’è un rancore profondo anche contro l’Europa. Non a caso, i siriani non vogliono né l’ONU né le nostre ONG. E’ la volontà dei siriani, non di Hayat Tahrir al-Sham. E a Gaza non c’è nessun ruolo per noi.
Nel testo del cessate il fuoco, c’è l’Appendice 1, articolo 5 paragrafo c. Nella prima fase, ogni giorno, per 42 giorni, ‘50 wounded military individuals’, più tre caregivers l’uno, sono autorizzati ad attraversare Rafah e andare via.
Duecento uomini legati ad Hamas al giorno. Fa 8.400. E molte domande. Dove andranno? E con quali controlli? Con quali garanzie? Cosa si prospetta per l’Egitto di al-Sisi, che è già in bilico di suo? Che Medio Oriente si sta costruendo, al Risiko di principi e emiri e presidenti?
Israele ha vinto, sì. Ma il 7 Ottobre sta lì a ricordare che esisterà sempre un deltaplano di spago e stoffa capace di forare il più tecnologico dei suoi Iron Dome. I droni degli Houthi continuano a piovere su Tel Aviv. E ora, tutti, qui intorno, sono “potenziali Houthi”. Non si avranno due Stati. Non c’è più spazio. Ma se Israele non rifletterà su se stesso, senza sconti, non si avrà neppure uno Stato solo, ma prima o poi, zero Stati. E un Medio Oriente senza né gli uni né gli altri.