Il ruolo della politica estera nella corsa alla Casa Bianca

La Convention del Partito Democratico, a Chicago (19-22 agosto), si è focalizzata – com’era prevedibile e naturale – sul tentativo di ricompattare il partito attorno al ticket Harris-Walz. E’ stata l’occasione per far meglio conoscere i due candidati al grande pubblico e puntare su alcuni temi “identitari” in aperto contrasto con il Partito Repubblicano guidato e dominato da Donald Trump. Dunque, la politica estera non ha svolto un ruolo di primo piano ed è stata soltanto abbozzata in pochi riferimenti, oltre ad essere presente a margine dell’evento sotto forma di proteste pro-Gaza (o meglio pro-palestinesi e anti-Netanyahu) che non hanno comunque interferito con il programma.

Kamala Harris e Donald Trump

 

Un punto da sottolineare è però che almeno due temi molto presenti e ricorrenti nei discorsi della Convention portano inevitabilmente a dover definire – in tempi rapidi – una linea generale di politica estera: si tratta della “middle class” americana da sostenere e rivitalizzare, e del concetto di “freedom” nelle sue varie accezioni. Kamala Harris si è presentata proprio come esponente di quella classe media che ha visto ridursi negli ultimi anni il suo potere di acquisto e la sua mobilità sociale, e che comunque percepisce minori opportunità e maggiori rischi anche a causa del contesto globale.

L’intero partito si è intanto raccolto attorno all’idea delle “libertà” (al plurale, potremmo dire) che una nuova amministrazione Trump finirebbe certamente per comprimere – dal diritto all’aborto fino alla tutela dei cittadini contro “big business” e contro l’aumento dei prezzi dovuto a posizioni quasi-monopolistiche. Va ricordato però che la promozione delle libertà democratiche è al centro di un approccio di politica estera perseguito dall’amministrazione Biden, con il recupero del tradizionale ruolo americano come bastione dei valori liberali.

 

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Su questi temi, per ora articolati in modo solo generico da Harris-Walz, dobbiamo aspettarci una notevole continuità rispetto all’amministrazione in carica, pur con qualche correttivo alla “Bidenomics” e un accento più forte sul ruolo delle minoranze, vista la storia personale della candidata alla presidenza. Proprio come l’attuale presidente, in ogni caso, la sua attuale “vice” dovrà per forza proiettare gli obiettivi interni anche in chiave internazionale; il mondo di oggi lo rende indispensabile, perfino per un Paese di dimensioni quasi-continentali come gli Stati Uniti. Biden e il suo Segretario di Stato Antony Blinken hanno parlato spesso di una “foreign policy for the middle class”, idea che si è concretizzata soprattutto nel tentato rilancio di una politica industriale (con alcuni elementi protezionistici), ma ha parallelamente coltivato le tradizionali alleanze che legano gli USA a molti Paesi in Europa e in Asia. Anzi, ha rilanciato quelle alleanze (anche con l’allargamento ulteriore della NATO) e ha intanto lavorato per forgiarne di nuove, ad esempio con una grande potenza emergente come l’India.

In estrema sintesi, Harris avrà tutto l’interesse, e tutta l’inclinazione, a restare nel solco di un internazionalismo liberale che deve continuare ad essere adattato al XXI secolo. E’ quanto emerge dalla sezione del suo discorso di investitura alla Convention agostana, in cui ha ribadito di voler rafforzare la leadership americana nel mondo, non “abdicare”, e di essere convinta che gli USA stiano sopravanzando la Cina nella competizione globale. Non ha mancato di ricordare che dittatori come Vladimir Putin e Kim Jong Un stanno tifando per Trump, e ha contrapposto la sua impostazione orientata verso il futuro (gli slogan “a new way forward” e “we are not going back”) a quella nostalgica dei Repubblicani (“Make America Great Again”).

 

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E’ stato giustamente osservato, dall’arrivo prepotente di Donald Trump sulla scena politica americana, che la tradizionale distinzione tra destra e sinistra ha perso di significato, per essere sostituita da quella tra chiusura e apertura. O quantomeno tra una netta chiusura al resto del mondo (ricorso sistematico ai dazi commerciali, atteggiamento fortemente rivendicativo nei confronti dei maggiori alleati, ritrosia a farsi coinvolgere in impegni militari di lunga durata), e una forma parziale e selettiva di “engagement” internazionale (incarnato dalla politica estera complessivamente prudente, a volte anche incerta e oscillante, sia di Obama che di Biden).

Questo nuovo asse sul quale ruota il dibattito mette i Repubblicani in una posizione scomoda, se intendono restare ancorati alle scelte – peraltro molto volubili ed estemporanee – fatte da Trump durante il suo mandato. Un obiettivo primario come il contenimento dell’assertività cinese (economica, tecnologica, ma anche diplomatica e militare) richiede infatti una combinazione di misure che coinvolgono vari Paesi alleati, direttamente o indirettamente. Insistere su una visione estrema di “America First” significa di fatto creare le condizioni per una “America alone”, rinunciando a un grande vantaggio comparato di Washington nel mondo, cioè la capacità di attrarre partner.

Riflette bene questo problema, ad esempio, il recente saggio firmato da Condoleezza Rice (Segretario di Stato con G.W. Bush) su Foreign Affairs (September/October 2024), che ha sentito il dovere di scrivere sui “pericoli dell’isolazionismo” in una sorta di manifesto della visione repubblicana tradizionale (oggi decisamente minoritaria). In tale ottica, lasciare l’Ucraina al suo destino (come hanno di fatto preannunciato Donald Trump e J.D. Vance) significa regalare alla Russia una vittoria e alla Cina una mezza vittoria.

 

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Se questi sono i termini generali del confronto sulla politica estera, i Democratici possono realisticamente sperare di attirare alcuni elettori (magari pochi, ma importanti in quanto incerti o “swing voters”) con una piattaforma internazionale pragmatica, sensata e neppure particolarmente innovativa.

C’è in effetti un problema più specifico riguardo all’Ucraina: il sostegno fornito (seppure in modo incerto e a volte riluttante, a intermittenza, con caveat vari) da Biden a Kiev è basato almeno parzialmente su una valutazione di principio che non è affatto condivisa dal ticket Trump-Vance, cioè la difesa della democrazia contro l’autocrazia come interesse americano. Qui le cose non sono affatto semplici per i Democratici, che devono costantemente convincere i loro elettori a spendere risorse per la difesa di un Paese lontano di cui forse dovrebbero occuparsi gli europei. Ma è tutto ancor più complicato per i Repubblicani, perché diventa arduo separare nettamente interessi e valori, alleanze e ideali. Anzi, quando i due poli della politica estera si allontanano, ne soffre solitamente la coerenza della proiezione americana nel mondo.

In tal senso, una sfida delicata arriva per il ticket democratico dalla guerra di Gaza, che spacca il partito tra l’ala più filo-israeliana e quella più propensa ad ascoltare le ragioni (umanitarie ma anche politiche) dei palestinesi. Alla Convention di Chicago, l’incoronazione ufficiale di Kamala Harris non è stata alla fine granché danneggiata dalle manifestazioni pubbliche e da queste specifiche divisioni tra fazioni, se non altro perché le dimensioni della protesta hanno sì coinvolto, pacificamente, migliaia di persone ma hanno avuto un impatto politico limitato: sugli oltre 2400 delegati del Partito Democratico (selezionati in base alle regole delle primarie), a Chicago erano 30 i membri del gruppo “uncommitted” che in sostanza ha sospeso il giudizio su Kamala Harris proprio a causa di Gaza.

Comunque, la questione non si potrà certo ignorare, prima ancora dell’eventuale inaugurazione del gennaio 2025. Va anche detto, tuttavia, che forse il problema non è realmente “identitario” e di scelta di campo come può sembrare, ma prevalentemente pragmatico: Harris stessa (come del resto Biden) ha già espresso critiche dirette e dure alle scelte del governo Netanyahu, e dunque la linea di massima è tracciata.

 

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Il punto è semmai come esercitare una qualche influenza sulle scelte future, sia con l’attuale coalizione al potere in Israele sia con un possibile successore di Netanyahu – che comunque dovrà fare i conti con l’annoso guaio della totale assenza di una controparte negoziale affidabile tra i palestinesi dentro e fuori Gaza. La sfida allora non è tanto gestire la situazione immediata, visto che la priorità delle esigenze umanitarie dei palestinesi è già stata ampiamente riconosciuta da Washington e che il sostegno militare a Israele potrà essere forse graduato ma non interrotto; la sfida è invece mantenere un rapporto equilibrato e non subordinato né passivo con un alleato recalcitrante (a tratti irrazionale) che si è collocato in una posizione di quasi-isolamento internazionale.

Si può in ogni caso affermare, alla luce della questione di Gaza, che il Partito Democratico vive una dialettica interna in cui ha un forte ruolo la mobilitazione della società civile – come nella migliore tradizione progressista. Altrettanto non sembra vero per il Partito Repubblicano, che è infervorato da una sorta di culto della personalità, con alcuni accenni di “guerre culturali” che però appaiono francamente fuori tempo – come quello contro l’aborto regolato per legge, con una forzatura tentata dalla Corte Suprema che di fatto è andata ben oltre il consenso prevalente nel Paese, perfino su parte del versante conservatore.

Collocata a cavallo tra politica interna e politica estera, tra questioni identitarie e gestione tecnica di un problema strutturale, c’è il dossier del confine meridionale, cioè dell’immigrazione illegale/clandestina dall’America centrale. E’ un tema su cui i Repubblicani hanno duramente e sistematicamente attaccato Biden e soprattutto Kamala Harris – che ha avuto dal presidente un incarico specifico in chiave di aiuti condizionati ad alcuni Paesi di origine dei flussi, senza peraltro un mandato chiarissimo né poteri specifici. L’anomalia, come hanno puntualmente fatto notare i Democratici, è che il GOP (su forte spinta di Trump) ha rifiutato lo scorso febbraio di votare una legge (negoziata in formato bipartisan) che avrebbe in certa misura affrontato il problema.

 

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Il caso è importante e rivelatore anche perché fin dall’ottobre 2023 gli stessi Repubblicani in Congresso avevano subordinato una nuova tornata di aiuti all’Ucraina proprio ad una misura sull’immigrazione che soddisfacesse le loro richieste. In sostanza, dopo un lungo e difficile compromesso parlamentare che ha tenuto sospese le forniture militari considerate vitali e urgenti da Kiev, il partito ormai totalmente dominato da Trump ha in effetti sabotato una mezza soluzione per il confine in cambio di un presunto vantaggio elettorale. E’ così riuscito a mettere in maggiore evidenza il fallimento dei Democratici e soprattutto della Casa Bianca su una questione certamente molto sentita dall’elettorato, rischiando però di presentarsi come il sabotatore di un accordo imperfetto ma comunque migliore della situazione attuale. Su una questione molto complessa da gestire sul piano tecnico-legale e del “law enforcement” il GOP non ha trovato di meglio che proporre una deportazione di massa dei clandestini già presenti sul territorio USA, che quasi tutti gli esperti ritengono sarebbe costosissima e praticamente irrealizzabile sul piano pratico.

Infine, anche senza entrare nel terreno minato del “toto-nomine”, e prima ancora di conoscere l’esito del voto del 5 novembre, è utile guardare al curriculum vitae di un collaboratore-chiave di Harris in politica estera, Philip Gordon. Attualmente suo National Security Adviser, è un atlantista convinto ed è stato un personaggio centrale nella politica di Obama verso il Medio Oriente (dove la difficilissima esperienza siriana segnò non poco entrambi, a livello personale), e sembra incarnare il possibile consenso “centrista” sugli affari internazionali. Quella di Gordon è una visione pragmatica e cauta ma comunque attivista, in cui l’impegno diplomatico americano può fare la differenza ma non sempre in modo radicale o immediato, e dunque ponendo l’esigenza di accettare scomodi compromessi.

Su una piattaforma del genere, sarà perfino possibile persuadere alcuni esponenti del Partito Repubblicano in Congresso a sostenere specifiche iniziative di una presidenza Harris.

In conclusione, la più profonda differenza tra la proposta politica dell’attuale ticket democratico rispetto a quello repubblicano in politica estera sta nel concetto delle connessioni: come già accaduto con le amministrazioni Obama e Biden, la visione dei Dems tende a vedere collegamenti ed effetti-contagio (tanto positivi quanto negativi, opportunità e pericoli) dove invece l’impostazione dei “MAGA Republicans” vede soltanto vincoli e costi per gli USA. Mentre allora Harris propugna un’idea di America che guarda ad un futuro incerto da costruire, Trump dipinge un quadro a tinte foschissime sia a livello nazionale sia a livello globale – una vera distopia americana. Mentre la visione dei Democratici può forse consentire la creazione di qualche ponte verso alleati, partner, perfino avversari con cui negoziare difficili accordi, la politica estera di marca repubblicana nella sua versione trumpiana può contare soltanto su un grande ponte levatoio.

 

 

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