Dopo circa quarant’anni di totale declino dei sindacati e assenza di scioperi significativi negli Stati Uniti, stiamo assistendo negli ultimi due anni ad una netta inversione di tendenza sul fronte delle rivendicazioni sociali, che ha avuto il suo apice nelle scorse settimane con lo sciopero nelle principali industrie automobilistiche del paese. Il clamore suscitato a livello nazionale ed internazionale da questo sciopero e la sua buona riuscita con gli accordi siglati a fine ottobre tra i big three dell’auto (General Motors, Stellantis e Ford) e lo UAW (United Auto Workers, sindacato degli operai che producono auto), ha alla base diverse ragioni politiche e sociali.
Se da un lato è ben noto che da sempre negli Stati Uniti si esalta il potere e la libertà del singolo come via di progresso sociale, rispetto alla presenza dello stato nelle vite dei cittadini o piuttosto all’aggregazione di questi in un corpo intermedio per reclamare diritti e benessere, dall’altro è evidente che le politiche e l’egemonia culturale neoliberista da Ronald Reagan in poi hanno totalmente estremizzato questo principio. A partire dagli anni ’80 si è di fatto cancellata la lunga stagione degli scioperi e del significativo potere dei sindacati che fino agli anni ’70 avevano caratterizzato anche l’America, con modalità molto spesso peculiari.
Per superare in maniera drastica quel periodo l’Amministrazione Reagan scelse di cominciare da un evento altamente simbolico. Il licenziamento dei controllori di volo (PATCO) fatto in diretta, il 3 agosto del 1981 in una conferenza stampa dal Giardino delle Rose della Casa Bianca, dal Presidente in persona, è rimasto nella memoria storica degli americani. Due giorni dopo, infatti, 11mila controllori di volo che non avevano interrotto lo sciopero e non erano rientrati a lavoro secondo l’ultimatum presidenziale vennero licenziati in tronco: fu usata una norma mai utilizzata prima in America, che vieta gli scioperi dei dipendenti delle agenzie federali e conferisce al Presidente la responsabilità di disciplinarli.
Il nuovo corso reaganiano della politica americana travolgeva così sindacati e scioperi, inoculando la certezza nell’opinione pubblica che il neoliberismo e l’individualismo sfrenato avrebbero garantito migliori condizioni per tutti. La narrativa ha funzionato fino a quando la grande crisi del 2008/2009, innescata dal fallimento del sistema dei mutui subprime con il collasso dell’istituto finanziario Lehman Brothers, ha fatto esplodere all’ennesima potenza le diseguaglianze. A molti americani sono state rese chiaramente evidenti le contraddizioni del proprio sistema lavorativo-previdenziale, ma anche sanitario e universitario.
La pandemia è stata poi il definitivo fattore a far cambiare la percezione nell’opinione pubblica americana sulla necessità di avere dei sindacati e aggregazioni per riequilibrare un sistema del lavoro diventato totalmente iniquo in diritti e salari, rispetto ai grandi profitti delle grandi aziende americane e ai giganteschi compensi dei vertici delle stesse.
La nuova “vitalità” dello sciopero e delle “forme aggregative” negli Stati Uniti ha dato notizia di sé a ottobre 2021 con lo sciopero dei 1400 dipendenti di Kellogg’s e poi si è propagata in varie direzioni. Basti ricordare, solo per citarne alcuni, le proteste che hanno coinvolto Starbucks, gli infermieri, i portuali della West Coast, i piloti di American Airlines, gli autisti dei corrieri UPS e perfino attori e sceneggiatori di Hollywood: questi ultimi in effetti hanno protestato contro l’introduzione dell’Intelligenza Artificiale, questione più specifica, ma sono comunque riusciti a ottenere adeguamenti salariali migliori, più tutele su pensioni e sanità, e un “bonus di partecipazione sui ricavi provenienti dalle repliche dello streaming”, finora inesistente. In questo quadro si inserisce il durissimo sciopero indetto lo scorso settembre dall’UAW nel comparto automobilistico.
Lo sciopero è stato guidato dal nuovo segretario Shawn Fain, un outsider, eletto a maggio di quest’anno per la prima volta tramite una consultazione generale aperta a tutti gli iscritti al sindacato, sulla spinta di una corrente che contestava l’immobilismo dei precedenti dirigenti. Fain, su posizioni radicali e con modi poco inclini al compromesso, è riuscito a condurre uno sciopero di sei settimane che ha del clamoroso per gli Stati Uniti.
Prima della scadenza dei contratti collettivi di lavoro Fain si era presentato presso le Big Three dell’auto avanzando richieste di adeguamenti salariali di oltre il 40% in 4 anni, più un aumento delle ferie retribuite e una settimana lavorativa più breve, oltre al recupero dei benefici a cui i lavoratori dell’industria dell’auto avevano dovuto rinunciare nelle passate trattative, quando le aziende erano in crisi per il Covid o durante la crisi dell’automobile del 2008–2010.
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Davanti a queste richieste, le aziende si erano chiuse a riccio ed avevano tentato di contrattare aumenti minimi: Ford, ad esempio, controproponeva un aumento salariale del 9% in 4 anni. Fain, dichiarando irricevibili tali mediazioni, non mancava di ricordare all’opinione pubblica che i colossi dell’auto nei primi 6 mesi del 2023 avevano fatto profitti per 21 miliardi di dollari e negli ultimi 10 anni per 250 miliardi di dollari, affermando che “profitti record vogliono dire rinnovi di contratto record”. Una posizione drastica che ha avuto successo tra i lavoratori e nell’opinione pubblica.
Altra carta vincente, nella battaglia contro l’industria automobilistica, è stata la nuova strategia sindacale dello Stand up strike, ossia di scioperi non più totali, ma di agitazioni selettive, svolte a turnazione e a macchia di leopardo tra i vari stabilimenti o reparti, graduate in intensità ed estensione in base all’andamento delle trattative.
Questi fattori, insieme al coinvolgimento costante dei lavoratori sui social media ha reso molto efficace la protesta, e molto popolare tra gli americani: un sondaggio della Gallup stimava il sostegno dell’opinione pubblica allo sciopero pari al 75%. Persino il Presidente Biden si è fatto vedere ai picchetti degli operai per portargli la sua solidarietà.
Le aziende dell’auto sono state infine costrette a capitolare: il 25 ottobre lo UAW chiudeva il primo accordo di rinnovo dei contratti con Ford, prevedendo un incremento salariale per i lavoratori del 25% nei prossimi quattro anni e mezzo unito alla reintroduzione dell’indicizzazione salariale all’inflazione (eliminata dopo la crisi del 2009), oltre ad un miglioramento dei benefici pensionistici. Il successo per Fain è enorme e si avvicina molto alle sue richieste iniziali visto che tenendo conto della clausola anti-inflazione, l’effetto complessivo sui salari dovrebbe essere di un aumento superiore al 30% tra i lavoratori assunti stabilmente e ancor di più tra i lavoratori precari.
Oltre a questo, il sindacato ha ottenuto la possibilità di scioperare in futuro contro la chiusura degli impianti, qualora nel momento di transizione verso l’elettrico i proprietari introducano tagli automatici di posti di lavoro o fabbriche. Nei giorni successivi anche le altre due aziende Stellantis e Genaral Motors hanno chiuso i rispettivi accordi: anche se ancora non pubblici, si presuppone molto simili a quello con Ford, facendo terminare gli scioperi nel migliore dei modi per i lavoratori.
Questa vicenda, senza sconfinare in semplicistiche analisi, conferma che la polarizzazione negli Stati Uniti è ormai ai massimi livelli in ogni settore. Sembra definitivamente finito il tempo dove gli attori politico-economici giocavano le proprie partite al centro, con accenti moderati e leadership da establishment.
L’elezione sindacale di Shawn Fain, ma anche la recente elezione a Speaker della Camera dell’ultraconservatore Mike Johnson dopo la storica destituzione di Kevin McCarthy accusato di essere troppo poco trumpiano, o ancora il dissenso nella mozione sul conflitto israelo-palestinese approvata il 25 ottobre alla Camera con il voto bipartisan di 412 deputati, ma con 15 voti di dissenso dell’ala più liberal del partito Democratico, capitanata da Alexandria Ocasio-Cortez, insieme tra gli altri a Rashida Tlaib, Cori Bush e Ilhan Omar, lasciano prospettare una difficile situazione per il Presidente in carica Joe Biden, stretto tra due fuochi che ne spingono in basso la popolarità. Una situazione simile potrebbe portare all’incredibile ritorno di Donald Trump alla Casa Bianca il prossimo novembre.
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