Il ritorno del candidato Trump

Nelle intenzioni, la campagna elettorale 2023-24 di Donald Trump sarà diversa dalle precedenti avventure, quella vinta nel 2016 e quella persa contro Joe Biden tre anni fa. Le novità non riguardano tanto il messaggio quanto l’organizzazione: lo staff assunto da Trump è composto da veterani repubblicani e non più da membri del clan familiare e consiglieri apprezzati per ragioni che prescindono dall’esperienza. Tra le figure chiave c’è Susie Wiles, che ha aiutato il Governatore della Florida Ron DeSantis a vincere la corsa per lo Stato nel 2018 e che ha già lavorato per l’ex presidente come direttore della campagna proprio in Florida nel 2016 e nel 2020 (quando però venne licenziata). Altro organizzatore importante sarà Chris LaCivita, stratega di lunga data, che fu determinante nel sedare la rivolta dei “Never Trump” alla Convention repubblicana del 2016. La Civita è un ex marine con una lunga carriera politica alle spalle oltre che uno dei due autori di quel colpo basso (ed efficace) che fu lo spot elettorale “Swift Boat Veterans” che nel 2004 mostrava ex commilitoni di John Kerry in Vietnam dire che il candidato democratico alla presidenza non era affatto un eroe, e che aveva tradito il Paese.

Donald Trump

 

La scelta di queste ed altre figure indica la volontà di allestire una campagna più disciplinata dal punto di vista organizzativo, meno casuale e legata agli umori del capo. Gli obbiettivi della macchina trumpiana sono al momento due: costruire una narrazione anti-DeSantis – o comunque contro altri candidati repubblicani che dovessero crescere nei sondaggi – e costruire una infrastruttura Stato per Stato, capace di intercettare gli elettori, registrarli al voto, portarli ai seggi senza contare esclusivamente sulla capacità dell’ex-Presidente di mobilitare grazie a discorsi incendiari, polemiche, appelli personali. Anche dal punto di vista dell’interazione con il pubblico, per ora vediamo più incontri piccoli – quella che si chiama “retail politics”, politica al dettaglio – e meno adunate nei palazzetti.

 

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Nei grandi comizi, con la folla che lo incita, Trump esce infatti più di frequente dal seminato. Ma le novità non implicano che lo stile Trump verrà messo da parte; conoscendo il personaggio sarebbe impossibile anche volendo. Così, accanto a strateghi con esperienza di costruzione di campagne sul campo, ci saranno anche veterani della Casa Bianca e del trumpismo della prima ora come Dan Scavino, Steven Cheung e Jason Miller. Come del resto si evince anche dai loro account sui social network, sono trumpiani nell’anima (Cheung ad esempio ha fatto anche il capo della comunicazione della UFC, la lega pro dei combattimenti di MMA, un torneo molto popolare).

Del resto, una delle prime operazioni della campagna è stata quella di demolire l’immagine di Ron DeSantis con attacchi alla sua persona (nomignoli, vecchie foto e così via), alla sua carriera politica pre-governatorato, al suo “tradimento” nei confronti di Trump, senza il cui sostegno non sarebbe mai diventato Governatore. Per adesso il nemico da attaccare senza sosta è DeSantis, e in caso di vittoria alle primarie, che appare quasi sicura, lo stesso stile domani sarà riservato all’anziano, il “rimbambito”, il padre di Hunter Biden che fa affari in Cina e Ucraina.

A proposito proprio di questi due Paesi, l’ex-Presidente utilizzerà i rapporti tesissimi con Pechino e la guerra in atto in Ucraina per rilanciare quell’isolazionismo libertario che nel 2016 fu una delle sue carte vincenti in quel Midwest de-industrializzato e bianco che gli regalò la vittoria (sebbene per pochi voti) e che piace nel West tradizionalmente repubblicano. Le promesse saranno: meno fondi e armi per Kiev (“la guerra non sarebbe scoppiata se fossi stato io Presidente” è una frase ricorrente), una scelta che l’elettorato repubblicano sembra gradire in maniera crescente, e un atteggiamento dai toni più aggressivi nei confronti di Pechino .

A questo punto della corsa non c’è alcun dettaglio sulle politiche proposte. Sulle pagine dedicate al programma sul sito della campagna (Issues e nei brevi video pubblicati su Agenda 47, dove 47 è il numero di serie della prossima presidenza) non troviamo dettagli ma slogan aggressivi e titoli come: “Licenziare dalle università quei marxisti lunatici che ne hanno preso il possesso”, “Rifiuto del globalismo e ritorno al patriottismo”, “Ripulire la palude di Washington dalla corruzione”, “Un commercio giusto per il lavoratore americano”. Tra i temi ce ne sono anche due o tre che parlano della vicenda personale dell’ex-Presidente: “Fine della censura e ritorno della libertà di parola”, che fa riferimento alla presunta censura sui social network (in particolare il blocco del profilo Twitter nel gennaio 2021), ed “Elezioni libere, oneste, legittime”, un accenno alla teoria martellante secondo cui quelle del 2020 sarebbero state rubate.

Di politica Trump non ha parlato neppure durante i 45 minuti di intervista concessa all’anchorman licenziato da Fox News Tucker Carlson andata online su X (o Twitter che dir si voglia) in contemporanea con il primo dibattito tra i candidati alle primarie Repubblicane. L’ex presidente non ha parlato degli avversari: “gli sono davanti di 60-70 punti”. Ha poi definito il presidente Biden corrotto, rimbambito, “il peggiore della storia”; si è dilungato infine sulle regole per il risparmio energetico e di acqua degli elettrodomestici e ha sostenuto di aver evitato la guerra nucleare con la Corea del Nord. Nella prima uscita in concorrenza con il resto del suo partito, insomma, Trump ha snobbato il partito, riproposto la sua figura accentratrice e dipinto la sua presidenza come “trasformativa”, mentre ha accusato gli avversari Democratici di essere “belve sanguinarie” che faranno di tutto per eliminarlo. Gli stessi contenuti di sempre, ma con un tono pacato e rassicurante favorito dall’avere un alleato come intervistatore e nessun avversario a cui rispondere.

 

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Il messaggio generale, infatti, è quello di otto anni fa e consiste sostanzialmente nell’idea che l’America non sia più la meraviglia che fu e che per tornare a essere grandi occorrano più armamenti e meno proiezione internazionale, una buona dose di isolazionismo, meno immigrazione, più polizia nelle strade e una guerra violenta e senza quartiere ai narcotrafficanti. Tra le poche cose puntuali che troviamo sul sito c’è la promessa di un executive order da firmare il primo giorno in base al quale i figli di immigrati illegali nati sul suolo americano non otterrebbero più la cittadinanza. Pur senza troppi dettagli, l’agenda Trump è radicalmente di destra e continua – con un’interpretazione fortemente populista del conservatorismo – a infrangere alcuni tabù propri del Partito Repubblicano anni ’80, ’90 e 2000 (libero commercio, solide alleanze e proiezione internazionale). Ma, ribadiamolo, non si tratta di una serie di policy dettagliate, quanto di titoli che, a ben guardare sono parzialmente irrealizzabili stante l’assetto costituzionale dato o che farebbero saltare gli equilibri planetari – del resto la guerra di parole e di sanzioni con Pechino, avviata proprio sotto l’amministrazione Trump, ha determinato un peggioramento delle relazioni ma non una riduzione sostanziale del deficit commerciale con la Cina.

Nei discorsi di Trump spicca per la sua assenza quel che per mesi è stato il centro del messaggio di Ron DeSantis, la lotta alla woke culture e contro alcune parole d’ordine liberal su temi culturali. Trump rivendica la “sua” Corte Suprema, quella che ha prodotto la cancellazione del diritto federale alla libera di scelta della donna in materia di gravidanza con una controversa sentenza del giugno 2022. Non fa discorsi astratti. Insistere su quella narrativa non ha giovato a DeSantis, che ha riorganizzato la sua campagna e sta spostando il proprio messaggio sul successo economico della sua Florida.

Tutta la campagna Trump convive con quello che negli USA si chiama “l’elefante nella stanza”, ossia la vicenda giudiziaria dell’ex-Presidente, rinviato a giudizio per un numero crescente di reati contro la democrazia e contro il fisco – con la più gravi delle accuse relative all’incitazione alla violenza e alla manipolazione dei risultati elettorali in Georgia. Prendiamo Susie Wiles, la consulente di cui si è già detto. Secondo gli inquirenti Wiles sarebbe tra le persone cui l’ex-Presidente avrebbe mostrato documenti secretati sottratti alla Casa Bianca e nascosti nella sua residenza di Mar-a-Lago. Wiles verrà certamente interrogata dagli inquirenti e dovrà mentire o tradire la fiducia del suo datore di lavoro – uno che chiede fedeltà assoluta.

 

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Il posizionamento della campagna è chiaro: l’amministrazione Biden usa il Dipartimento di Giustizia e procuratori statali “marxisti” per perseguitare l’unico avversario in grado di sconfiggere il Presidente democratico nell’urna, mettendo così in pericolo l’essenza stessa della democrazia americana. “Se queste persecuzioni illegali avranno successo, se gli sarà permesso di dare fuoco alla legge, allora non si fermeranno con me. La loro morsa si stringerà ancora di più intorno a VOI”, ha scritto Trump in una mail ai suoi sostenitori “Non è in gioco solo la mia libertà, ma anche la vostra – e non permetterò MAI che ve la portino via”. La battaglia legale di Trump, insomma, è presentata come una battaglia per difendere lo stato di diritto.

A giudicare dai sondaggi, l’opinione repubblicana prevalente è che le accuse contro Trump siano una vendetta politica e questo mette in difficoltà i suoi avversari alle primarie: tutti tranne Chris Christie e l’ex-Vicepresidente Mike Pence hanno parlato di “uso politico della giustizia”. Ma adottando la stessa linea di difesa di Trump, gli altri Repubblicani contribuiscono ad elevarne la statura a renderlo l’avversario che Biden non vorrebbe. Parallelamente, nelle elezioni generali, c’è una parte non indifferente di moderati che non vorrebbe un Presidente incriminato (o condannato). I procedimenti legali contro Trump sono insomma un potenziale asset nelle primarie ma un pericolo nell’urna del novembre 2024. Ma per adesso l’ex-Presidente deve vincere le prime.

 

 

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