Il rischio che Donald Trump ceda troppo, con un team debole

E’ un momento delicato per la presidenza Trump, perché la fretta è una cattiva consigliera. E il tempo scarseggia per registrare (e intestarsi) qualche risultato tangibile in politica estera, mentre lo sguardo è ovviamente rivolto al voto di novembre 2020. La tentazione – già emersa in più occasioni negli ultimi mesi – è dunque quella di raggiungere accordi quasi ad ogni costo: con la Cina sul commercio, con i Talebani sul ritiro dall’Afghanistan, magari perfino con l’Iran su una rinegoziazione dell’intesa nucleare e con la Russia sul “reintegro” nel G8. L’elemento tipico dell’approccio di Donald Trump, cioè la personalizzazione della politica, potrebbe essere adottato soprattutto (di nuovo) con Kim Jong-un per strappare qualche ulteriore impegno non verificabile sui test nucleari e missilistici; ma anche il Presidente iraniano Hassan Rouhani è un candidato a un incontro “a sorpresa”.

Il problema di questa particolare fase della politica estera americana è duplice: dalla prospettiva esterna, gli alleati sono totalmente esclusi da eventuali negoziali (in corso, dormienti, o sospesi che siano) tutti bilaterali, e non possono dunque influire granché sull’esito; dalla prospettiva interna, i processi decisionali sono molto inefficienti e praticamente impediscono agli Stati Uniti di far pesare la propria potenza aggregata (militare, economica, in termini di “soft power”) in modo durevole.

Si colloca su questo sfondo l’allontantamento di John Bolton dall’amministrazione – l’ennesimo, in una girandola di licenziamenti e dimissioni da record. L’ormai ex Assistente alla Sicurezza Nazionale è un ideologo (oltre che un “falco”) e, come tale, ha naturalmente osteggiato alcune mosse poco coerenti del Presidente.

Donald Trump e John Bolton

 

Chi ha fretta di ottenere qualche risultato spendibile in chiave elettorale non può certo badare alla purezza ideologica delle proprie scelte, e dunque la fine prematura di questo rapporto di collaborazione non è affatto sorprendente. Del resto, aveva subito un trattamento simile, a fine 2018, anche un personaggio molto pragmatico come l’ex Segretario alla Difesa James Mattis. E’ chiaro insomma che nessuno è al riparo dai cambiamenti d’opinione del Comandante in Capo.

Resta però il problema di fondo più grave per Washington: il team di politica estera è debole, indisciplinato (pur essendo sempre più schiacciato sul volere del capo) e privo di una visione complessiva. Non avendo realmente la fiducia del Presidente, nessuno dei suoi emissari può davvero prendere impegni seri con le controparti straniere. Il cane si morde così la coda, perché la difficoltà di concludere negoziati rende Trump ancora più insoddisfatto e ansioso di risultati e dunque irritabile nei confronti dei collaboratori. In ultima analisi, l’amministrazione non si è dotata degli strumenti organizzativi necessari a fare politica internazionale, e gli effetti si vedono.

Per chi ritiene che gli interessi americani siano in molti casi compatibili con quelli dei maggiori alleati e perfino del sistema internazionale – cosa che peraltro Donald Trump trova comunque irrilevante – questa debolezza della superpotenza è una pessima notizia. L’apparente paradosso è che l’eccesso di assertività (minacce, dazi e sanzioni a pioggia) può all’improvviso tramutarsi in eccessiva disponibilità al compromesso, perché il pugno duro manca di obiettivi chiari e realistici.

Nei prossimi mesi potremmo così assistere a qualche cedimento di Washington su dossier di importanza globale, sotto forma di intese a metà, con il respiro corto e senza condizioni sufficientemente precise. Il Presidente, e candidato alla rielezione, è alla ricerca impaziente di “vittorie”, come è solito dire. Purtroppo, l’esperienza recente suggerisce che, con ogni probabilità, questo produrrà qualche stretta di mano, molti tweet e poca sostanza.

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