Un importante fattore di cambiamento sembra interessare la politica saudita da qualche mese a questa parte. Il ruolo pressoché incontrastato dell’erede al trono Mohammad bin Salman appare diminuito nella portata e nella sostanza, in un generale ridimensionamento che appare come il prodotto di un ribilanciamento degli equilibri interni all’inner circle della corona.
La “retrocessione” di Mohammad bin Salman
Lo scandalo successivo all’omicidio Khashoggi, il disastroso conflitto in Yemen, la crisi economica e le flebili prospettive di successo dell’ambizioso programma Vision 2030, hanno certamente determinato una fase di oggettiva difficoltà per il Principe bin Salman, favorendo l’apertura di una finestra di opportunità tra i ranghi sempre più numerosi dei suoi rivali, per esigerne dal sovrano un ridimensionamento.
Tale processo di crisi, paradossalmente, è stato favorito anche dalla politica dell’ex presidente Donald Trump verso il Crown Prince, e dall’ambigua relazione che suo genero e consigliere, Jared Kushner, ha cercato di costruire – insieme al premier israeliano Benjamin Netanyahu – con il giovane principe.
Trump ha gestito il rapporto con l’Arabia Saudita nel solco della sua personale visione della politica estera regionale in Medio Oriente, caratterizzata da uno scarso interesse complessivo ad esercitare un ruolo strategico nell’area e, al contrario, con una spiccata sensibilità per l’aspetto economico, soprattutto quello di breve e medio periodo caratterizzato dalle opportunità per l’industria della difesa. Non ha fatto mistero di questo suo interesse nemmeno dinanzi al tangibile imbarazzo di Mohammad bin Salman in visita alla Casa Bianca nel marzo 2018, quando mostrò alla stampa un cartellone che indicava il tipo di mezzi acquistati dai sauditi e il loro valore complessivo.
Un grave errore commesso dall’amministrazione Trump è stato certamente quello di abbandonare al proprio destino gli esponenti della famiglia reale che a lungo erano stati gli interlocutori privilegiati degli Stati Uniti, come l’ex erede al trono Mohammad bin Nayef, progressivamente travolti dalla politica prevaricatrice di Mohammad bin Salman. Anche il silenzio sul caso Khashoggi, sebbene nel generale imbarazzo delle istituzioni statunitensi, ha contribuito più a deteriorare il rapporto con Riyad che non a migliorarlo, determinando un raffreddamento nelle relazioni politiche e militari non più sperimentato da anni.
Contestualmente, il rapporto tra Stati Uniti e Arabia Saudita veniva coltivato su un piano parallelo da Kushner, attraverso un’agenda concordata con il premier israeliano Netanyahu per favorire lo sviluppo di un accordo molto pomposamente chiamato “Patto di Abramo”, idealmente concepito come una legittimazione araba dello Stato di Israele.
Trump, Netanyahu e il Patto di Abramo
Il “Patto”, tuttavia, rappresentava anche il tentativo di Israele di costituire un fronte regionale omogeneo ostile all’Iran, ma anche questo aspetto è risultato alla fine problematico e scarsamente percorribile. Mentre la minaccia iraniana è condivisa – pur con percezioni differenti – da Israele, Arabia Saudita e Bahrain, infatti, la stessa non trova altrettanto consenso negli Emirati e soprattutto in Oman e Kuwait.
L’elemento che ha fatto conflagrare la crisi saudita, infatti, è stato proprio il tentativo di Kushner e Netanyahu lo scorso novembre di forzare la decisione saudita verso l’adesione al “Patto di Abramo” del settembre 2020 (siglato sotto l’egida degli Stati Uniti tra Israele ed Emirati Arabi, a cui poi si è aggiunto il Bahrein) in occasione della visita “segreta” del premier israeliano in Arabia Saudita, tentata attraverso la compiacenza di Mohammad bin Salman ma seccamente rifiutata tanto dal sovrano quanto dall’entourage politico della corona. Una richiesta sembrata inaccettabile per l’Arabia Saudita, paese che sulla causa palestinese e sul ruolo centrale di indirizzo della comunità musulmana – non ultimo grazie alla presenza di Mecca e Medina sul proprio territorio – ha costruito l’immagine del riferimento che intende proiettare verso il mondo arabo e musulmano più ad ampio raggio.
Il presidente Trump non sembra aver nutrito particolare interesse per questa parte dei rapporti regionali almeno sino alla fase della campagna elettorale 2020, quando ha cercato al contrario di sfruttarne il risultato al fine di consolidare il proprio fronte interno.
A margine delle elezioni presidenziali, tuttavia, il “Patto di Abramo” è stato parte di un insieme di interessi marginali della Casa Bianca, mentre al contrario ha rappresentato un elemento centrale dell’agenda di Benjamin Netanyahu e di Jared Kushner, che lo hanno concepito come strumento politico di rafforzamento del premier israeliano, e, al tempo stesso, come elemento centrale della politica estera e di sicurezza di Tel Aviv.
La narrativa sul “Patto”, infatti, è stata caratterizzata da una parte con la promozione dell’immagine di una generale legittimazione di Israele da parte dei paesi arabi della regione, e del contestuale pieno ristabilimento delle relazioni politiche, economiche e sociali, e dall’altra come sodalizio regionale anti-iraniano, nell’ambito di un fronte comune arabo-israeliano contro la minaccia di Teheran. Uno sforzo narrativo fortemente alimentato dalla comunicazione di Israele e degli stessi paesi europei, che hanno definito il “Patto di Abramo” come un accordo di portata storica e, di fatto, come un generale punto di svolta nella politica regionale.
Una coalizione di interessi
Al “Patto” vero e proprio, tuttavia, hanno aderito solo pochi paesi della regione, ed ognuno con una sua specifica agenda di interessi individuali. Emirati Arabi Uniti e Bahrain sono di fatto gli unici firmatari ufficiali degli accordi, mentre il Sudan e il Marocco, che hanno aderito ad una successiva “normalizzazione” con Israele, hanno manifestamente voluto mantenere la propria indipendenza rispetto ai primi firmatari. La caratteristica comune di almeno tre di questi paesi – EAU, Bahrain e Marocco – è quella di aver intrattenuto da tempo rapporti più che eccellenti con Israele, sebbene non sul piano formale, avendo stabilito nel corso degli ultimi anni soprattutto una proficua cooperazione sul piano della sicurezza.
Ognuno di questi, tuttavia, ha visto nella richiesta di Israele di formalizzare il “Patto”, un proprio specifico insieme di interessi. Gli Emirati Arabi Uniti desiderano essere inseriti in una maglia di sicurezza congiunta nella regione, garantita da Stati Uniti e Israele e costruita sulla partecipazione paritaria degli aderenti. A tal proposito hanno chiesto di poter acquisire i caccia di quinta generazione F-35, dovendo ben presto tuttavia incassare l’opposizione israeliana e, con la fine dell’amministrazione Trump, anche lo stop da parte dell’amministrazione Biden.
Il Bahrain vede nel patto di Abramo sostanzialmente una garanzia di sicurezza permanente non solo contro le possibili minacce dell’Iran ma anche – e soprattutto – contro quelle provenienti dalla maggioranza della propria popolazione, di confessione sciita e già più volte oggetto di repressione militare attraverso l’aiuto dell’Arabia Saudita.
Il Marocco ha aderito in extremis alla richiesta statunitense di una normalizzazione con Israele, poco prima delle elezioni presidenziali, sotto la forte spinta di un’amministrazione Trump alla disperata ricerca di successi sul piano internazionale, a sostegno di una campagna elettorale che si presentava sempre più articolata e complessa. Il prezzo posto dal Marocco sul tavolo negoziale è stato tuttavia altissimo, spazzando via quarant’anni di diplomazia USA nella regione attraverso il riconoscimento de facto della sovranità del Marocco sul Sahara Occidentale.
Il Sudan, ultimo del gruppo di paesi che ha aperto alla “normalizzazione” con Israele, ha manifestamente chiesto di non essere considerato come parte del “Patto”, non nascondendo nemmeno nell’ufficialità delle comunicazioni come la scelta sia stata condizionata dalla promessa degli Stati Uniti di sbloccare gli aiuti al paese da parte della Banca Mondiale.
È alquanto difficile, in sintesi, poter considerare il “Patto di Abramo” come uno spontaneo risultato dell’evoluzione politica regionale, frutto di un mutato contesto politico e soprattutto sociale nei confronti di Israele. In alcun modo, soprattutto, il “Patto” può essere presentato come il frutto di un sentimento sociale e culturale diffuso nel mondo arabo, dove, al contrario, come palese soprattutto in Egitto a oltre quarant’anni dalla firma degli accordi di Camp David, il sentimento di ostilità verso Israele è fortemente radicato nella società.
Questo fattore pone un importante interrogativo in merito alla sua possibilità di effettivo successo e durata nel tempo per gli aderenti. I paesi che hanno aderito all’accordo lo hanno fatto sapendo di assumere una pesante responsabilità in termini di impatto sociale, ben sapendo di alimentare un diffuso malcontento in alcuni ben radicati ambiti della cultura e, soprattutto, del mondo confessionale, dovendo in tal modo gestire vantaggi e benefici dell’accordo a fronte di evidenti possibili rischi sul piano della sicurezza e del rapporto con la società.
Se questa combinazione di vantaggi e rischi dovesse trovarsi ad essere sbilanciata in direzione dei secondi, a fronte del venir meno della capacità o della volontà di Israele e degli Stati Uniti di concedere agli aderenti regionali i desiderata che li hanno spinti all’adesione, ognuna delle singole posizioni potrebbe essere soggetta ad un profondo processo di revisione.
Le spine nel Golfo Persico
Non ultimo, poi, il mutamento degli equilibri interni al regno saudita è transitato anche attraverso un raffreddamento del rapporto con gli Emirati Arabi Uniti ed una contestuale trasformazione – in termini peggiorativi – del rapporto un tempo intenso tra l’erede al trono di Riyad, Mohammad bin Salman, e quello di Abu Dhabi, Mohammad bin Zayed.
In questo contesto, l’Arabia Saudita si è fatta promotrice di un’azione atta a risolvere la crisi con il Qatar, promuovendo una conferenza ad Al Ula il 5 gennaio scorso, nell’ambito della quale ha di fatto costretto gli Emirati Arabi Uniti ad accettare i generici termini di un accordo per il ritorno alla normalità all’interno del Consiglio di Cooperazione del Golfo. La dichiarazione che ne è scaturita, e che ha incluso l’Egitto, pur non contenendo alcun impegno o calendarizzazione, ha voluto ristabilire la leadership saudita sulle dinamiche regionali, imporre agli Emirati Arabi Uniti un forte segnale in merito all’urgenza di una discontinuità nella politica verso il Qatar e, più in generale, segnalare l’inizio di una nuova fase politica a Riyad.
L’iniziativa è stata accolta con entusiasmo tanto dal Kuwait quanto dall’Oman, che sin dapprincipio si erano posti in una posizione terza rispetto alla crisi con il Qatar, rifiutandola nella sostanza e pragmaticamente assumendo il ruolo di mediatori al preciso scopo di non doversi schierare in una diatriba considerata pericolosamente inutile. Anche l’Egitto ha guardato con interesse all’iniziativa, sperando soprattutto di poterne trarre beneficio nell’ambito della complessa crisi libica e, più in generale, nei tesi rapporti con la Turchia.
L’amaro calice della sconfitta, almeno per il momento, è toccato in tal modo ad Abu Dhabi, costretta ad incassare il risultato dell’iniziativa saudita, a dover constatare come Doha non abbia ottemperato a nessuna delle richieste espresse all’indomani della chiusura delle relazioni nel giugno 2017, e, non ultimo a trovarsi costretta ad una profonda revisione della propria politica di sicurezza regionale.