La conferenza per la Libia che si è tenuta a Palermo il 12 e 13 novembre era stata indetta in seguito al colloquio che il primo ministro italiano Giuseppe Conte aveva avuto qualche mese prima con il presidente americano Donald Trump. A prescindere dalle polemiche sul fatto che si siano visti o meno a Palermo i veri decision-maker oppure se questo sia stato solo un inutile esercizio o, ancora, se sia servito ad amalgamare meglio i vari attori libici e non, è più utile ora focalizzare l’attenzione sulle prospettive post-conferenza.
In realtà, nella città siciliana non si è visto nulla di nuovo per quanto concerne gli attori libici, ma si è confermata una dinamica già osservata in passato: il Governo di Accordo Nazionale (GNA) del primo ministro Fajez al-Serraj (basato a Tripoli), obbedisce alle pressioni internazionali per addivenire ad un accordo con le istituzioni orientali del paese, ed in primis con il maresciallo di campo Khalifa Haftar (basato in Cirenaica). Quest’ultimo continua, invece, ad agire come un negoziatore riluttante, pronto a cedere alle pressioni esterne solo in parte e a mantenere viva la possibilità di una vittoria militare sul campo delle forze ai suoi ordini. A quanti contestano l’impossibilità di ottenere tale successo in una situazione frammentata come quella libica di oggi, Haftar risponde con la sua convinzione che molte delle milizie in Tripolitania, poste di fronte al dilemma se aderire al suo piano o trovarsi coinvolte in uno scontro armato totale dai risvolti incerti, sceglierebbero la prima via, permettendogli quindi una vittoria quasi senza combattere.
A Palermo si è di fatto ratificato il piano presentato a New York l’8 novembre dallo Special Representative delle Nazioni Unite Ghassan Salamè. La sua sostanza consiste in due punti chiave: prima dare vita ad una Conferenza nazionale per il dialogo – alla quale dovrebbero partecipare rappresentanti libici di tutte le categorie sociali, del mondo politico e dei gruppi armati più importanti – con il fine di creare un accordo tra le parti che poi permetta di arrivare ad elezioni in primavera in una situazione più tranquilla.
La visione di Salamè si avvicina molto alla proposta francese del maggio scorso, che vedeva nella realizzazione di elezioni rapide la possibilità di dare stabilità al paese. A questa idea si opponeva il piano italiano che invece prevedeva la riforma del Consiglio Presidenziale e la creazione di un governo di tipo tecnocratico con il compito di stabilizzare il paese attraverso riforme economiche, politiche e militari e, solo in ultima istanza, arrivare al traguardo elettorale.
Dal momento che la scelta sembra ormai definitivamente orientarsi verso elezioni (relativamente) rapide, la discussione dovrebbe a questo punto essere focalizzata sulle difficoltà inerenti e sui possibili modi per superarle.
La Conferenza nazionale per il dialogo
Nulla di preciso è emerso da Palermo e quindi molte sono le domande che si pongono. Il Presidente del GNA Serraj ha annunciato la formazione di un comitato per l’organizzazione della Conferenza che si dovrebbe tenere tra gennaio e febbraio. E’ utile ricordare che qualcosa di simile si era già tenuto nei mesi scorsi. La ONG svizzera Humanitarian Dialogue ha realizzato, sotto l’egida delle Nazioni Unite e del GNA, una serie di incontri in varie parti del Paese al fine di raccogliere istanze, rivendicazioni e suggerimenti da parte dei partecipanti riuniti in assemblea nelle varie città.
Come verrà integrato questo consistente sforzo con l’organizzazione di una assemblea plenaria? Chi definirà i parametri per la selezione dei rappresentanti alla conferenza? Che cosa scaturirà da questa iniziativa e come si porrà in riferimento alla nuova Costituzione che dovrebbe venire ratificata da un referendum popolare subito dopo la Conferenza? Il rapporto tra Conferenza e Costituzione si presenta assai complicato. Ad esempio, in quale sede verrebbero discusse le istituzioni della nuova Libia? A tutte queste ed a altre domande si dovrebbe dare risposta rapida ed esaustiva prima ancora di iniziare a lavorare per la realizzazione della Conferenza nazionale.
Tralasciando il dibattito sulla Costituzione – in quanto nemmeno si è capito se si lavorerà sulla bozza elaborata nel luglio 2017 o su altre proposte – è sul piano della sicurezza che si determinerà il successo del processo di unificazione nazionale ratificato a Palermo. Quello di sciogliere le milizie e reintegrarle nella società civile è un punto focale e potrebbe rappresentare la vera chiave di volta del processo, nonostante esso venga valutato come uno degli obiettivi di lungo termine delle nuove istituzioni che dovrebbero scaturire dal processo elettorale.
Ciò che più importa, adesso, è però evitare che tali milizie ostacolino il processo di stabilizzazione della Libia. Il progetto ventilato nei corridoi sarebbe quello di allontanarle dalle città di Tripoli e Bengasi, ponendole sotto il controllo diretto del ministero della Difesa. Esse verrebbero considerate come parti fondanti del piano di riunificazione e ricostituzione delle forze armate libiche – un piano intrapreso dall’Egitto attraverso una serie di meeting al Cairo che hanno visto la partecipazione di ufficiali, sia quelli appartenenti al defunto esercito gheddafiano sia quelli dei nuovi gruppi armati, provenienti da tutte le regioni libiche. La sicurezza nelle due grandi città della Libia verrebbe posta agli ordini dell’attuale ministro degli Interni Fathi Bashaga e gestita dalle ricostituite forze di polizia che, almeno all’inizio, dovrebbero essere in buona parte composte da ex-agenti della polizia del vecchio regime e integrate da singoli elementi tratti dalle milizie. Sulla carta questo progetto potrebbe avere qualche chance di riuscita.
Le elezioni primaverili
Il problema connesso alle elezioni riguarda il tempo, troppo scarso per garantire un serio e, soprattutto sicuro, processo elettorale. Così come il presidente francese Emmanuel Macron ha preso una terribile cantonata fine maggio 2018 nel fissare le elezioni per il 10 dicembre dello stesso anno (infatti non si terranno), anche Salamè ha rischiato parecchio, pur evitando una data precisa.
Merita inoltre di essere sottolineato che il processo di ratifica della Costituzione, così come si va palesando, sarà molto più lungo di quello che porta alle elezioni. Si rischia quindi che l’intero processo politico “grippi”, causando un’ulteriore posticipazione delle elezioni in attesa della ratifica costituzionale o, viceversa, producendo elezioni senza una costituzione ratificata. In aggiunta, resta il fatto che i pochi mesi rimanenti prima dell’ipotetico evento elettorale non sono sufficienti a dare vita ad un articolato sistema mediatico in grado di permettere un’efficace campagna e una sana competizione politica. Il rischio sarebbe quello di ripetere l’esperienza del 2014, quando alle urne si è recato solo il 15% degli aventi diritto al voto.
Il nuovo piano proposto da Salamè è all’apparenza semplice, ma nella pratica estremamente complesso, a causa delle enormi difficoltà di attuazione. Necessiterebbe di quella collaborazione di tutti gli attori nazionali e internazionali che, a dire il vero, al di là della retorica dell’ufficialità, a Palermo non si è vista.