Il rebus economico di Harris

Gli anni della presidenza Biden sono un buon esempio di come l’economia non sia una scienza esatta. In teoria, infatti, un livello di inflazione mai così alto dal 1981 e tassi di interesse come non se ne vedevano dal pre-crisi del 2008 avrebbero dovuto produrre disoccupazione e fiaccare la crescita ben più di quanto non sia stato. Se si esclude il 2021, un anno di crescita anomala per via della fine della recessione da pandemia, i dati sull’andamento del PIL statunitense non sono straordinari ma neppure cattivi: +1,9%, +2,5 e 3% nel trimestre aprile-giugno dell’anno in corso, un dato sopra le previsioni governative. I dati più recenti parlano anche di una crescita della fiducia dei consumatori (in contraddizione con la percezione diffusa sull’andamento generale).

La candidata democratica Kamala Harris

 

Anche il mercato del lavoro ha sfidato il senso comune: nonostante gli alti tassi di interesse e la crescita dei salari che hanno aumentato il costo del lavoro in diversi settori, tra gennaio 2021 e agosto 2024 la disoccupazione non è mai andata oltre il 4,3%. L’ultimo dato, quello dato di agosto, non modifica di molto questa tendenza e segnala che non c’è una vera inversione di tendenza e neppure un precipitare della situazione. I segnali c’erano: a luglio  i posti di lavoro creati sono diminuiti di 237.000 unità, il livello più basso dal gennaio 2021.

Ma all’incontro annuale di Jackson Hole di fine agosto, il presidente della Federal Reserve, Jay Powell, ha spiegato il raffreddamento del mercato del lavoro non come il prodotto di un aumento dei licenziamenti che segnalerebbero preoccupazione da parte delle imprese, calo degli ordinativi o simili, ma di una crescente partecipazione (più persone cercano lavoro) e da un parallelo rallentamento del numero di assunzioni. Il dato resta comunque negativo.

L’indice PMI manifatturiero dell’Institute for Supply Management (ISM) indica una lieve ripresa: in agosto è salito a 47,2 dal 46,8 di luglio. Secondo ISM un PMI inferiore a 50 indica una contrazione, in questo caso del settore manifatturiero. Attenzione però: Reuters segnala come spesso le letture del PMI siano peggiori del dato consolidato e, cosa più importante, se paragoniamo questa contrazione a crisi recenti, siamo ancora in acque calme: il PMI è sceso fino al 40,8% durante la crisi delle “.com” nell’ottobre 2001, ed è crollato al 34,5% nel dicembre 2008.

La cosiddetta Bidenomics ha contribuito a risultati diversi da quelli che gli analisti si attendevano guardando a inflazione e tassi di interesse scegliendo di far intervenire lo Stato in economia per una serie di ragioni considerate strategiche – sostegno al reddito, infrastrutture, transizione ecologica e riorganizzazione/rinazionalizzazione di alcune filiere produttive ritenute essenziali. La politica economica decisa sotto Biden ha funzionato solo in parte e ha forse accelerato alcune tendenze già in atto causate da una serie di crisi (Covid, blocco del canale di Suez, Ucraina) che hanno spinto molte grandi imprese ad accorciare o rendere “amiche” le linee produttive e le catene di fornitura.

 

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In questi anni, ad esempio, le multinazionali asiatiche dell’auto hanno programmato nuovi investimenti o ampliamenti negli Stati Uniti, e spesso nel settore dell’auto elettrica; altri, americani e non, hanno investito nella promessa di una crescita imponente del settore della produzione di energia rinnovabile. I nuovi investimenti hanno prodotto circa 60mila nuovi posti di lavoro nel settore manufatturiero con la nota aggiuntiva che nel 2023, i posti di lavoro nel settore dell’energia pulita sono cresciuti a un tasso più che doppio rispetto al resto mercato del lavoro statunitense. È presto per dire quale sia la causa e che effetto avranno nel tempo medio alcune misure dell’amministrazione Biden, mirate appunto alla transizione energetica e alla ricostruzione del tessuto industriale, ma quel che si può dire è che negli ultimi tre anni gli Stati Uniti hanno visto crescere il proprio settore manufatturiero, anche se molto meno dell’occupazione in generale.

Come si diceva, da diversi mesi questa dinamica positiva si è raffreddata sia per quanto riguarda il mercato del lavoro che la manifattura. Sappiamo anche che la spesa pubblica dell’Inflation Reduction Act (IRA), il provvedimento legislativo bandiera dell’amministrazione su questi temi, che ha sostenuto alcuni settori ha raggiunto il suo tetto massimo ed è destinata a diminuire. Importante da segnalare, questo intervento pubblico in economia ha fatto crescere il deficit in misura molto minore di quanto fatto dalle politiche economiche dell’amministrazione Trump (al netto delle misure di sostegno all’economia pensate per rispondere al Covid).

Ma, a proposito di scienze esatte, la politica e la ricerca del consenso difficilmente rispondono al racconto che possiamo fare usando gli indicatori economici. Se a determinati fattori corrispondessero risultati elettorali conseguenti, il presidente Biden non sarebbe stato impopolare come è stato per tre anni e mezzo e le chance dell’ex-presidente Trump di essere rieletto non sarebbero molte. Eppure, come sappiamo, non è così e la percezione degli americani sugli anni appena trascorsi non coincide con quel che dicono i fondamentali. Non c’è da stupirsi.

Il problema dell’inflazione è che questa pesa sulle spese che ciascuno fa tutti i giorni e, dunque, chi vive di lavoro vedrà il proprio reddito diminuire di fatto, mentre chi dispone di rendita finanziaria in anni in cui l’andamento delle borse è stato positivo, sentirà molto meno la pressione. Parallelamente, tassi di interesse alti rendono più costoso comprare una casa. Infine, il mercato immobiliare delle case in affitto è trainato verso l’alto dall’abitudine di alcuni grandi gruppi sostenuti dalla finanza di Wall Street a comprare migliaia di appartamenti e cambiare i termini dei contratti – spesso sfrattando gli inquilini residenti, ma questo è un altro tema. Nonostante l’economia sia andata nel complesso bene, questi fattori hanno dunque reso la vita della medium e lower middle class più complicata, il tutto dopo un anno duro come quello del Covid. Nel 2019, il reddito familiare mediano negli Stati Uniti era di 78.250 dollari. Nel 2022, l’ultimo anno disponibile riportato dalla Fed di St. Louis, la mediana era di 74.580 dollari, con un calo di quasi il 5%.

Non sorprende dunque che in testa alle preoccupazioni degli americani indagati dagli istituti demoscopici c’è spesso l’economia e secondo un sondaggio condotto per Newsweek, il 46% degli americani ritiene che l’economia sia in uno stato peggiore rispetto al gennaio 2021, quando Trump ha lasciato la Casa Bianca, contro il 33% che sostiene che sia migliorata.

 

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La preoccupazione per l’andamento dell’economia e un’inflazione considerata ormai sotto controllo determineranno l’avvio della riduzione dei tassi da parte della Federal Reserve come già di fatto annunciato nel discorso di Jackson Hole da Powell. A differenza della BCE, ricordiamolo, tra i compiti istituzionali della Fed c’è anche quello di favorire l’occupazione. Quanto e come questa diminuzione dei tassi contribuirà a sostenere l’economia è difficile da prevedere. Tanto più durante un ciclo economico caratterizzato da sorprese e imprevisti.

E qui veniamo al voto di novembre. Quanto influirà questo inizio di rallentamento dell’economia su un pubblico già non particolarmente soddisfatto? Quanto è avvertito il rallentamento, nelle case degli americani? Solitamente le crisi, se di crisi si tratterà, vengono percepite dal pubblico con qualche mese di ritardo, il che sarebbe un bene per i Democratici. Parallelamente, se il taglio dei tassi non producesse grandi effetti e i numeri continuassero a peggiorare a settembre e ottobre, allora saranno i Repubblicani a poter fare campagna su un’economia che rallenta, associando la percezione ai fondamentali.

 

 

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