Il quadro regionale e globale attorno allo scontro cruento tra Hamas e Israele

 L’attacco di Hamas a Israele, e la guerra che ne è scaturita – non sappiamo ancora che forme avrà, né chi vi parteciperà con precisione – hanno riportato sul palcoscenico del mondo la semi-dimenticata questione palestinese. Questo è il primo successo politico di Hamas, che ora s’impone come principale portavoce della causa non solo a Gaza ma anche in Cisgiordania (sebbene questa sia tecnicamente tuttora sotto il controllo di al Fatah, in quanto formazione di governo riconosciuta dalla comunità internazionale). A questo si aggiunge il successo strategico, ossia l’aver messo quasi in ridicolo le difese di un esercito tra i più tecnologicamente avanzati al mondo, con i suoi servizi di sicurezza convinti di tenere sotto sorveglianza digitale e nel mirino ogni minimo angolo della Palestina, e orgogliosi tra l’altro della propria capacità di infiltrazione.

L’operazione via aria, mare e terra di Hamas si è concretizzata in una carneficina indiscriminata e inaccettabile, inedita per numero di vittime e violenza dispiegata, che non sposta di un millimetro la soluzione della questione palestinese e che infligge lutti indescrivibili a Israele. Sofferenze che si sommano all’enorme choc di sentirsi indifesi e scoperti di fronte a un soggetto, un avversario, un nemico che si riteneva soggiogato, o comunque contenuto e bloccato – anche se in realtà è la popolazione civile della Striscia ad essere letteralmente imprigionata e ricattata da Hamas.

Israele ha ora l’opportunità di reagire, anche grazie alla solidarietà internazionale che ha travalicato i confini dell’Occidente e che fornisce un capitale politico-diplomatico immediatamente spendibile. Deve farlo con intelligenza. Ci sarà un momento in cui le responsabilità sia di lungo che di breve periodo del governo Netanyahu (al picco della sua impopolarità al momento dell’attacco di Hamas) dovranno essere esaminate senza sconti. Tra quelle di lungo periodo, il via libera all’occupazione su larga scala da parte dei coloni religiosi delle terre palestinesi in Cisgiordania, e l’abuso di un discorso nazionalista e suprematista che ha portato almeno una parte della politica e la società israeliana a considerare irrilevante la componente palestinese delle regioni “dal Giordano al mare”. Tra quelle di breve periodo, l’utilizzo dell’esercito per proteggere i coloni in Cisgiordania invece che per difendere le barriere attorno alla città chiusa di Gaza, che i commando di Hamas hanno potuto superare indisturbati.

Palestinesi festeggiano la distruzione di un blindato israeliano fuori dalla Striscia di Gaza, nell’attacco del 7 ottobre

 

Ma l’occasione di reagire può trasformarsi in un grosso rischio. E’ davvero un corso d’azione saggio tagliare acqua e luce a Gaza e seppellirla sotto le bombe – seppur in cerca di “obiettivi militari”? Non sarebbe la prima volta che Israele tenta questa via, solo per assistere alla costante e continua radicalizzazione degli abitanti di Gaza, cementata dalla sofferenza e dagli aiuti e finanziamenti ricevuti da Paesi come Iran o Qatar – un tempo attori quasi assenti dalla Terrasanta. Oppure occuparne almeno una fascia, come sembra si stia procedendo a fare in queste ore? L’idea di evacuare una buona parte dei due milioni di persone che vivono nella Striscia meriterebbe un grande piano logistico con una forte componente umanitaria, più che un ultimatum di poche ore. Il rischio evidente, e tragicamente tangibile, è la possibile trasformazione delle strade di Gaza in un luogo di catastrofe umanitaria dove non sarebbe difficile immaginare, allo stesso tempo, una trappola militare molto costosa in vite umane.

Inoltre, nei due casi, se l’obiettivo dell’azione andasse oltre la dimensione semplicemente punitiva, per risultare invece ad esempio in una caccia ai vertici di Hamas, si rischierebbe di mirare al bersaglio sbagliato. I vertici di Hamas, come si sa, fanno spesso e volentieri base a Doha – chi starebbe a Gaza, potendo scegliere? E’ possibile allora che li si cercherebbe invano nella Striscia.

Questo ci conduce alla dimensione internazionale della guerra tra Hamas e Israele. Nel vicinato, la preoccupazione più immediata riguarda il comportamento della milizia Hezbollah, filo-iraniana e basata in Libano. Militarmente molto equipaggiata e preparata, per il momento non è intervenuta, ma potrebbe farlo se la guerra si intensificasse, e se dunque la pressione da parte delle piazze e dell’opinione pubblica nel mondo arabo contro Israele aumentasse. Un secondo fronte, con la probabile estensione del conflitto alla Cisgiordania, dove già palestinesi e israeliani si affrontano e si affrontavano anche prima dell’attacco di Hamas, avrebbe conseguenze assolutamente imprevedibili.

La dinamica diplomatica in corso negli ultimi anni ha visto un graduale e parziale avvicinamento di Israele a Paesi arabi come Emirati, Bahrein, Marocco e Sudan – con i quali il governo israeliano ha firmato gli storici Accordi di Abramo, sotto l’egida degli Stati Uniti in continuità tra Donald Trump e Joe Biden. Va detto però che quegli accordi avevano un’impostazione (e un obiettivo prioritario) decisamente anti-iraniana, in qualche modo contraddetta (o aggirata) dai contatti più o meno riservati in corso da mesi tra Teheran e Ryiad. In ogni caso, l’Arabia Saudita era sulla via dell’adesione agli Accordi – che presuppongono il riconoscimento dello Stato di Israele, tabù decennale in larga parte del mondo arabo. L’attacco di Hamas – che di Israele non riconosce nemmeno il diritto a esistere – blocca ora il processo, rischiando di farlo saltare.

Secondo alcuni, la costruzione di un asse politico Washington-Tel Aviv-Ryiad sarebbe considerata dall’Iran (ma anche dal Qatar) una minaccia esistenziale, per il contenuto strategico-economico che comporta, e questa sarebbe probabilmente la prova che Teheran ha aiutato Hamas in tutto il processo legato alla preparazione e all’esecuzione dell’attacco. Per altri, l’Iran avrebbe certo un grande interesse a sabotare la distensione tra Israele e parte del mondo arabo, ma si sarebbe limitata a vendere qualche missile a Hamas, fornendo un po’ di assistenza industriale, mentre da Doha arrivava quella economica e logistica, non specificatamente impiegate in operazioni particolari.

In ogni caso, quindi, la risoluzione della crisi dovrebbe passare per il coinvolgimento di questi attori regionali – e in tal senso gli Stati europei e l’Unione potrebbero essere preziosi nell’esplorare vie diplomatiche ancora intentate, dati gli stretti e crescenti rapporti politico-economici con gli emirati del Golfo, e data la posizione europea storicamente meno schiacciata su Israele rispetto a quella americana. E’ comprensibile come il governo israeliano guidato da Netanyahu voglia dare una dimostrazione di forza, esclusiva e rapida, come risposta allo schiaffo ricevuto da Hamas. Ma la riproposizione dello status quo ante, che probabilmente ne deriverebbe, sarebbe un modo davvero poco brillante di tornare alla colpevole inerzia da cui è tornata a esplodere la questione palestinese. A meno di creare una sorta di fascia di sicurezza, una zona-cuscinetto e quasi una terra di nessuno monitorata dalle forze israeliane, nella parte settentrionale della Striscia di Gaza: un esito le cui probabilità sono al momento impossibili da quantificare. Non sarebbe certo una vera soluzione in termini strategici, ma un cambiamento tattico favorevole a Israele.

Gaza dopo un bombardamento israeliano l’11 ottobre

 

Intanto, il ruolo degli Stati Uniti non va sottovalutato, e anzi si sta dimostrando piuttosto attivo ed equilibrato, fin dalle prime ore dopo gli attacchi di Hamas. Washington ha subito preso una netta posizione a sostegno di Israele in quanto Paese aggredito e vittima di un cruento episodio di terrorismo su larga scala. Ha al contempo attivato tutti i possibili canali diplomatici, da al-Fatah alla Giordania all’Arabia Saudita (con le visite-lampo del Segretario di Stato Antony Blinken e del Segretario alla Difesa Lloyd Austin) facendo presagire comunque una linea diplomatica aperta a contributi multilaterali. Al contempo, è stato schierato un gruppo portaerei nel Mediterraneo Orientale e ne è stato inviato un secondo verso l’area, mentre unità di forze speciali assistono le forze armate israeliane e si sta rafforzando la presenza aerea e l’invio di munizioni verso le basi americane nella regione.

In sostanza, le prime ore di questa crisi confermano – se ce ne fosse bisogno, una volta di più – la natura attiva della deterrenza convenzionale americana a supporto di partner e alleati, e la capacità di agire rapidamente in qualsiasi regione del mondo. Variabili strategiche che forse troppo spesso si tendono a dimenticare.

C’è infine una dimensione propriamente globale di questa nuova fase di un vecchio conflitto irrisolto: come ha sottolineato l’11 ottobre alla Camera il Presidente della Commissione Affari Esteri, Giulio Tremonti, “Suez, a pochissimi chilometri dagli eventi di queste ore, è sempre più importante, perché è lungo il percorso di due Vie: la Via della Seta cinese, e la nuova Via del Cotone, quella che l’ultimo G20 ha definito India-Middle East Europe Economic Corridor, o Corridoio economico India/Golfo/UE”.

Si può aggiungere che Israele e la sua regione circostante sono un importante snodo delle nuove vie della globalizzazione, come anche di alcuni aspetti rilevanti della transizione energetica dal petrolio al gas, dal gas naturale a quello liquefatto, e forse anche dalle energie fossili a quelle rinnovabili.

Questo dato non implica necessariamente che Cina o Russia siano da considerarsi corresponsabili degli eventi recenti – anche ammesso e non concesso che abbiano una forte influenza su un attore come Hamas – ma certo ne possono beneficiare in modo indiretto, distraendo l‘attenzione dell’intera comunità internazionale dal conflitto ucraino o dalle tensioni nel Pacifico, ad esempio. Non si può insomma ignorare il quadro complessivo in cui si inseriscono anche gli ultimi sviluppi del conflitto israelo-palestinese.

 

 

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