La Cina è diventata la più grande incognita per l’economia mondiale, eppure la sua leadership – il Partito Comunista – sembra aver ancora fiducia nello strumento consolidato dei piani quinquennali. Il 16 marzo si è conclusa a Pechino la doppia sessione annuale dell’Assemblea nazionale del popolo e della Conferenza politica consultiva del popolo. La prima è una specie di camera legislativa, che si riunisce ogni anno a marzo, di fatto per ratificare le decisioni del Partito; la seconda è la massima istituzione consultiva cinese. I due organi hanno discusso il piano 2016-2020, la cui forma definitiva verrà approvata a breve. Tuttavia abbiamo già parecchi elementi, e dati provenienti da analisi precedenti, per comprendere quale sia la situazione attuale dell’economia cinese e quali le aspettative per il futuro.
Il sistema economico della Cina sta attraversando una profonda fase di transizione e il prossimo quinquennio sarà fondamentale per dare una nuova direzione allo sviluppo nazionale. Fino a oggi, il modello di sviluppo è stato fondato su due fattori principali: la migrazione dalle campagne alle città e gli investimenti pubblici.
La migrazione dalle zone rurali alle zone urbane ha corso al tasso di circa 20 milioni di persone all’anno nel periodo 1995-2015 (pari ad un tasso di crescita di circa 1.2%-1.4% annuo). Il forte divario di reddito tra i cittadini urbani e i cittadini rurali (circa tre volte) lo ha favorito, con l’effetto di triplicare il reddito pro-capite degli ex-contadini. Le stime su quali sia l’impatto positivo di tali migrazione sulla crescita complessiva del pil cinese vanno dallo 0.5% fino al 2%. Se si prende la stima più alta del 2%, nell’eventualità che questo flusso migratorio si arrestasse, il pil non crescerebbe più del 7%, bensì del 5%. Le conseguenze potrebbero essere ancora maggiori perché gli effetti secondari si ripercuoterebbero su vari settori dell’economia in modo cumulativo. In ogni caso, è chiaro che il governo deve cercare di mantenere attivo questo flusso, se vuole continuare ad approfittare del suo effetto automatico.
Problema fondamentale delle migrazioni interne però è che i contadini che si trasferiscono in città raramente riescono a progredire in modo rapido e a migliorare la propria condizione socio-economica al di là di impieghi nel settore delle costruzioni (muratori), in fabbriche a basso contenuto di valore aggiunto (catene di montaggio), o nel settore della ristorazione (camerieri). Ciò è dovuto a un insieme di fattori: a) scarsa preparazione scolastica, b) scarso desiderio o spinta ad imparare, c) la velocità a cui cambia la società, che mette a dura prova la capacità di adattamento di chi parte svantaggiato.
Il secondo motore di spinta economica, gli investimenti, hanno rappresentato, storicamente, circa il 40% del totale del prodotto interno lordo cinese. Tali investimenti sono stati diretti in particolare ai settori manifatturiero, energetico e minerario. Nel terziario, il grosso è stato diretto allo sviluppo delle infrastrutture. L’agricoltura è stata trascurata, ed è anche per questo che, in passato, i contadini sono stati attratti dal “fascino” delle città.
Tuttavia, entrambi i motori principali della crescita si stanno inceppando, per motivi diversi. Il primo, il flusso migratorio si sta affievolendo per il fatto che, paradossalmente, il governo sta tentando di rimediare alle grandi disparità di reddito nel Paese (di cui il rapporto reddito urbano/reddito rurale è una componente) createsi durante questi venti anni di sviluppo frenetico. Una sua diminuzione rende meno attraente per il contadino medio l’opzione di abbandonare le proprie terre, tanto più che il costo della vita urbana mitiga ulteriormente l’apparente vantaggio. Il paradosso è doppio: in economia si suppone che i consumi, una componente fondamentale del pil, salgano quando la differenza di reddito è minore, diciamo in regime di eguaglianza sociale. In Cina, invece, accade che, dal momento che l’effetto dominante per i salari (e quindi i consumi, e quindi il pil) è invece il flusso migratorio, il governo si trova a fronteggiare una realtà economica, ma anche politica e sociale, molto particolare: la spinta verso una più equa ridistribuzione dei redditi porta ad un effetto di rallentamento del pil.
Il secondo motore di crescita, gli investimenti, sta anch’esso inceppandosi, per un ancor più grave paradosso sociale. Il governo del presidente Xi Jinping ha lanciato, già da un paio di anni, una campagna anti-corruzione che sta colpendo molti esponenti del partito, di aziende di stato e private. Una campagna che, al di là delle sue vere motivazioni, tenta di instaurare un sistema dove le spese per i finanziamenti statali vengano monitorate con più attenzione. Laddove ci fosse corruzione, o anche solo imperizia e superficialità sull’utilità effettiva di uno specifico progetto, i funzionari interessati sarebbero i primi a dover fornire spiegazioni. In un contesto politico-amministrativo autoritario a volte brutale come quello cinese, si è così creato un clima di quasi-terrore che sta portando a un serio rallentamento degli investimenti, proprio in quei settori che sono stati trainanti finora e dove, ovviamente, la corruzione era penetrata di più. Quindi la campagna anti-corruzione ha l’effetto collaterale di inceppare un motore di crescita economica che rappresenta, come detto in precedenza, il 40% del pil.
In questo quadro, ci si chiede se sia giusto cercare di “ritornare al passato”, consentendo quindi che la disparità di reddito si riallarghi e la campagna anti-corruzione rientri, in modo da ripristinare i vecchi fattori di crescita. O se invece si debba provare a cercare dei degni sostituti, che favoriscano la crescita nei prossimi anni: l’innovazione; il miglioramento della gestione manageriale delle imprese; le riforme strutturali sul lato dell’offerta dei settori in sovrapproduzione; il conseguente re-training del personale verso nuovi settori industriali. Certo, si tratta di riforme estremamente difficili da mettere in moto nel breve termine.
Ma sarà difficile ripristinare davvero la situazione precedente, mentre le riforme impiegheranno comunque anni a materializzarsi. Dunque il rallentamento della crescita del prodotto interno lordo continuerà nei prossimi cinque anni.
Un’ultima considerazione, da non tralasciare. Qualora la crescita del pil il nei prossimi due-tre anni fosse più sostenuta della aspettative, ciò non sarà motivo di gaudio, anzi. Come un’altalena con due bimbi che giocano a chi fa andare più in alto l’altro, più elevata sarà la crescita nella prima parte del quinquennio, più bassa sarà, matematicamente, nella seconda parte, perché l’obbiettivo di crescita media, come il fulcro dell’altalena, resta fisso, al 6.5% o meno.
Quindi, più alto sarà il pil nel 2016 e nel 2017, peggiore sarà la situazione nel triennio 2018-2020. È come se la Cina avesse un limite fisso al pil che può produrre nel prossimo quinquennio, e potesse soltanto operare una scelta inter-temporale, cioè di come spalmarlo nel tempo.
I limiti del modello cinese stanno emergendo in tutta evidenza.