Ma è altrettanto plausibile ritenere che un fronte conservatore anti-Trump, così compatto, finirà per danneggiare anche l’attuale candidato. Sarebbe scorretto, però, immaginare semplicemente un’ala moderata e centrista del campo repubblicano che si impegna contro Trump, perché a disagio con alcune posizioni e alcuni eccessi. Chi ha guidato, allora, l’offensiva conservatrice contro il candidato che ha vinto le primarie, sentendo minacciata l’essenza del movimento conservatore?
Una prima, decisa e vigorosa alzata di scudi è arrivata dalla rivista National Review. Non è un nemico qualsiasi, nel campo della destra americana. La National Review rappresenta il primo progetto, negli anni della Guerra fredda, di costruzione di una nuova “Right Nation” conservatrice. Un progetto di contro-egemomia culturale, che doveva aiutare i Repubblicani a ribaltare il presunto senso comune liberal – quello che aveva permesso di eleggere Franklin Roosevelt e John Kennedy, innervandosi nel tessuto socio-culturale americano; e che doveva permettere di portare avanti un’agenda genuinamente conservatrice (il Repubblicano Dwight Eisehnower, eletto nel 1952, si autodefinì un “progressista moderato”; nel 1950 era stato corteggiato dal Presidente democratico Harry Truman quale suo possibile successore: un tale contesto non poteva soddisfare i giovani conservatori degli anni Cinquanta).
Quando William Buckley Jr. fondò la rivista nel 1955, riuscì ad aggregare filoni minoritari del conservatorismo americano, non sempre coerenti tra loro – di stampo cattolico, iper-liberali in economia ma anche libertari, ex-comunisti pentiti – e crebbe tanto da divenire influente ispiratore della prima, vera trasformazione culturale del Partito Repubblicano. Questa condusse alla candidatura di Barry Goldwater nel 1964: si trattò di una sconfitta, che aprì però la strada a una metamorfosi del campo conservatore, dei suoi valori e del suo elettorato. Una vera e propria fuga in avanti prima dell’avvento del reaganismo.
Per concludere: i ribelli degli anni ’60, gli oppositori della vecchia anima del Grand Old Party, nonché gli agitatori culturali della prima vera rivolta interna ai conservatori, si sono fermamente schierati contro il ribelle Donald Trump. Non è poco, da un punto di vista simbolico. In un articolo del febbraio 2016 hanno schierato ventidue intellettuali, descrivendo il tycoon di New York come un fascista: il disegnatore ufficiale della rivista lo ha raffigurato in camicia nera, con una grande T al posto del fascio littorio. Tra i ventidue una manciata di neoconservatori (quei neocon di moda nel decennio scorso), qualche liberale di destra e alcuni cattolici conservatori. Improvvisamente – e d’accordo con il disegno culturale della National Review – sono riapparsi gli stessi spunti polemici degli anni Cinquanta e Sessanta, quando i nuovi conservatori si erano aperti la via mirando a due bersagli: i Repubblicani subordinati alla cultura liberal, e i vecchi arnesi del nativismo ipernazionalista, del suprematismo bianco e del cospirazionismo (alla John Birch Society, molto attiva negli anni Sessanta contro il movimento per i diritti civili).
Oggi, inesistenti i primi, Trump e i suoi seguaci sono apparsi come la reincarnazione dei secondi: un profilo culturale intollerabile per i vari John Podhoretz, Leo Brent Bozell III, William Kristol… (tutti figli d’arte nel mondo neoconservatore). Persino un commentatore corrosivo come Glenn Beck si è schierato, in quel numero di febbraio della National Review, contro Trump. Convinto che egli rappresenti il ritorno della cultura del Big Government(ossia la mano pubblica) nel campo conservatore: Beck, per esempio, accusa Trump di essere favorevole all’uso della leva dell’intervento pubblico in economia. Come nel caso del famoso “stimulus” del 2009, quando Obama utilizzò circa 800 miliardi di dollari per ridare vitalità all’economia americana: “Ciò di cui abbiamo bisogno è costruire infrastrutture, grandi progetti e far tornare le persone a lavorare”, ha sostenuto Trump. Un approccio “obamiano” intollerabile per Beck.
Oppure prendiamo le parole di David Boaz, vice presidente del think tank libertario Cato Institute: “la più grande offesa di Trump alla tradizione americana è il suo nativismo e la sua promessa di un sistema con un uomo solo al comando”. Jeffrey Miron, Direttore degli Studi economici dello stesso think tank, ha definito il programma economico di Trump “disastroso”. Altri esempi potrebbero essere portati per corroborare questa tesi: la rivolta dell’establishment culturale conservatore contro un candidato così eterodosso è stata forte e decisa. Lo è stata durante le primarie, è tornata a esserlo in queste settimane di debolezza della campagna di Trump, soprattutto a seguito dei dibattiti televisivi.
L’unico think tank apertamente schierato con Donald Trump è stato il californiano Claremont Institute (non a caso non si tratta di un “Washington insider”), dalle cui fila proviene lo staff che ha creato la principale piattaforma di sostegno intellettuale per il candidato anti-Clinton. Questa piattaforma si chiama “American Greatness” e sembra concentrarsi più sul regolamento di conti – intellettuali – interni al campo conservatore che alla costruzione del consenso per il credo trumpiano: a luglio del 2016 ha pubblicato una “Dichiarazione di indipendenza dal Movimento Conservatore”, mentre a fine settembre un elenco di “scholars & writers for Trump”, con molti nomi poco conosciuti al grande pubblico (il più familiare agli italiani è quello di Michael Ledeen, a lungo con l’American Enterprise Institute).
A fronte di una presa di distanze netta, o di un’opposizione palese, al progetto trumpiano da parte del movimento culturale conservatore che sostiene lo Small Government, il libero commercio, i valori cristiani e l’interventismo in politica estera, non ci è dato sapere se Donald Trump – un anti-intellettuale per definizione – possa in realtà creare uno spazio per il recupero di un filone culturale del conservatorismo americano, in primo luogo quello nativista. Le truppe mancano e non sappiamo se il Generale avrà voglia di combattere questa battaglia. Una battaglia – e a dirlo sono anche i numeri e le statistiche che descrivono i cambiamenti socio-demografici degli Stati Uniti – che appare di retroguardia, molto più di quanto non apparissero fuori tempo i nativisti e i membri della John Birch Society negli anni Cinquanta.
Questo il limite del trumpismo, persino se vincesse le elezioni, tanto dal punto di vista culturale che politico: apparire forte ora, nell’impersonare la rabbia di una parte della società americana, ma essere debole in proiezione futura.