A quattro mesi dal fallimento dell’incontro OPEC di Doha, il presidente del cartello petrolifero Mohammed Al-Sada ha annunciato un vertice straordinario a fine settembre ad Algeri per discutere della possibilità di un congelamento della produzione petrolifera dei maggiori paesi esportatori. La notizia, rafforzata dalle dichiarazioni del Ministro saudita dell’energia e de facto leader dell’OPEC, Khalid Al Falih, ha portato ad un significativo aumento del prezzo del petrolio: dopo il picco negativo raggiunto a febbraio, si è registrata una crescita del 10% nel solo mese di agosto, riportando i prezzi del crudo a quota $50 al barile.
Nonostante la recente risalita dei prezzi del greggio, il calo subito dal 2014 ad oggi, causato principalmente da un eccesso di offerta sul mercato, sta erodendo le finanze statali di molti paesi produttori – in particolare Venezuela, Algeria, Nigeria e Iraq. L’instabilità del mercato petrolifero è alimentata e mantenuta da alcuni paesi produttori, tra cui l’Arabia Saudita, che vedono nella discesa dei prezzi un’opportunità per guadagnare quote di mercato a discapito dei produttori più deboli.
Lo sfruttamento dello shale oil negli Stati Uniti ha avuto un forte impatto sul prezzo del petrolio, con l’aumento della produzione statunitense di 4.9 milioni di barili al giorno tra il 2008 ed il 2014 che ha reso autosufficiente il più grande consumatore mondiale. Altrettanto determinante è stata la decisione saudita, presa all’incontro OPEC del 2014, di non intervenire sul mercato attraverso l’applicazione di un tetto di produzione bensì incrementandola, in modo da abbassare le quotazioni del greggio – con l’obiettivo proprio di ostacolare l’ascesa dell’industria petrolifera americana.
Il riaffacciarsi dell’Iran sui mercati petroliferi, a seguito dell’accordo sul nucleare di luglio 2015, ha rafforzato la pressione a ribasso sul prezzo del petrolio, spingendo l’Arabia Saudita ad incrementare ulteriormente la propria produzione con l’intento di danneggiare la ripresa del principale rivale politico. Non a caso il vertice OPEC di aprile non ha portato ad alcun accordo sul congelamento delle quote.
La trattativa è naufragata dopo che l’Iran ha rifiutato la richiesta saudita di arrestare la propria produzione a livelli antecedenti la rimozione delle sanzioni. Ad un mese dall’incontro di Algeri (26-28 settembre), l’Iran ha raggiunto una produzione pari a 3,6 milioni di barili al giorno, avvicinandosi ai livelli pre-sanzioni (4-4,2 milioni di barili al giorno), e rendendo più tangibile la possibilità di un congelamento delle attività estrattive dei paesi OPEC a fine settembre. Possibilità di accordo che rimane ancora remota dato l’aggravarsi della tensione tra Iran e Arabia Saudita, sia sui fronti delle guerre per procura in Medio Oriente, sia per via delle accuse reciproche di varie interferenze in questioni di sicurezza, anche con ricadute interne. In Yemen si stanno infatti intensificando i bombardamenti sauditi a sostegno del deposto presidente Abd Rabbih Mansur Hadi contro i ribelli houthi sostenuti da Teheran; mentre in Siria il sodalizio tra Russia e Iran è sempre più forte contro il fronte sunnita anti-Assad, finanziato dall’Arabia Saudita.
Intanto, negli ultimi mesi Teheran e Riad sembrano aver infranto il tacito accordo di non interferenza in questioni di politica interna. Ad inizio luglio l’ex capo dei servizi segreti sauditi, il principe Turki bin Faisal, ha dichiarato apertamente la sua ostilità verso il governo iraniano, augurandone la caduta, e dando un aperto sostegno il partito Mujahedeen-e Khalq, definito da Teheran un’organizzazione terroristica.
Ad inacerbire ulteriormente le relazioni tra i due paesi (già ai minimi storici dopo l’esecuzione a gennaio da parte di Riad del dissidente politico ed imam sciita al-Nimr), sono stati i ripetuti scontri verificatisi nei mesi di giugno e luglio tra forze armate iraniane e milizie curde al confine con l’Iraq. A Teheran, gli incidenti hanno suscitato forti risentimenti verso l’Arabia Saudita, che viene accusata di sostenere azioni curde nella regione, con l’intento di destabilizzarne il governo iraniano. Si è in sostanza innescata una spirale tra dinamiche regionali e interne: in un periodo di crescente malcontento domestico per le proteste provenienti dalla minoranza sciita, Riad vede in un’intensificazione dello scontro con Teheran un’opportunità per re-indirizzare l’attenzione pubblica verso un nemico esterno, demonizzando la minoranza sciita e scoraggiando il dissenso verso la monarchia.
Nonostante l’industria petrolifera saudita rimanga una delle più capaci ad affrontare un ribasso dei prezzi del greggio (dati i bassissimi costi di estrazione), il governo non è immune a problematiche legate ad una diminuzione degli incassi petroliferi. Solo nel 2015, il governo di Riad ha dovuto sacrificare $115 miliardi di riserve estere per sopperire ad un deficit di bilancio pari al 15% dell’economia.
La forte dipendenza dell’Arabia Saudita dalle entrate petrolifere, che rappresentano più del 70% degli incassi statali, ha portato il governo ad annunciare ad aprile un piano post-petrolifero intitolato “Visione per il Regno dell’Arabia Saudita,” in cui vengono proposte riforme economiche e sociali. Il “Programma di Trasformazione Nazionale,” pubblicato a giugno, dettaglia la prima fase di riforme annunciate nel documento di aprile, tra cui la privatizzazione del 5% della compagnia petrolifera di stato, Saudi Aramco, tagli ai sussidi su acqua ed elettricità, l’aumento delle tasse, e l’istituzione di un fondo sovrano attraverso cui rinvestire i proventi del petrolio.
Un dato interessante è che la leadership iraniana deve affrontare sfide per certi versi simili: il piano di sviluppo economico quinquennale annunciato a maggio dal governo iraniano somiglia in alcuni aspetti al programma saudita, specialmente per quanto riguarda l’intenzione di Teheran sia di alimentare il proprio fondo sovrano attraverso incassi provenienti dalle esportazioni petrolifere, sia il suo interesse a rafforzare l’industria della difesa.
A differenza dei paesi del Golfo, altri produttori non hanno la stessa capacità di fronteggiare le perdite causate dal ribasso dei prezzi del petrolio, dati i maggiori costi di estrazione e la maggiore dipendenza dalla risorsa per via della grandezza delle loro popolazioni. Il caso più drammatico – in una regione assai distante e diversa per dinamiche geopolitiche – è quello del Venezuela, paese in profonda crisi economica, con una crescita negativa dell’8%, un tasso d’inflazione vicino al 500% ed una concreta possibilità che le proprie riserve valutarie possano esaurirsi entro la fine dell’anno per far fronte ad un crescente debito pubblico. In termini più generali, gli scenari globali non promettono nulla di buono per paesi come il Venezuela.
Anche in caso di un accordo ad Algeri in ambito OPEC, infatti, la discrepanza tra domanda e offerta manifestatasi nel mercato non sembra colmabile nel breve termine. Nel mese di luglio la sola produzione saudita ed iraniana è aumentata di un milione di barili al giorno rispetto a dicembre, crescita a cui potrebbe aggiungersi la ripresa dell’industria irachena a seguito di nuovi accordi siglati dal governo con Shell, BP e Lukoil. A meno di grandi sconvolgimenti di natura politica o un’inaspettata ripresa della domanda globale, il prezzo del petrolio sembra destinato a rimanere inferiore alla soglia di sostenibilità di molti produttori: una circostanza già evidenziata dall’arrestarsi di progetti di esplorazione sulle coste del Brasile ed Africa Occidentale, nelle sabbie bituminose canadesi, e perfino dagli aggiustamenti in corso negli Stati Uniti dove molti produttori di shale oil stanno trovando difficoltà a rifinanziare le proprie operazioni.
Tale andamento continuerà a favorire i produttori a basso costo, escludendo dal mercato i produttori meno competitivi, contemporaneamente disincentivando lo sviluppo di fonti d’energia alternative, che a questo livello di prezzo faticano ad attirare investimenti necessari per rimpiazzare il petrolio.