Il Premier Kishida: la sfida della pandemia e quella del consenso in Giappone

Quando è arrivato al Kantei, il Palazzo del governo di Tokyo, Fumio Kishida ha detto che la sua priorità sarebbe stata contenere la pandemia e ritornare alla normalità. Dal 4 ottobre scorso, quando ha preso il posto di Yoshihide Suga come Premier del governo giapponese, i casi di Covid in Giappone sono crollati. La variante Delta ha avuto breve vita nell’arcipelago nipponico, e nel giro di tre mesi i casi di persone affette da Sars-Cov-2 sono passati da circa 26mila al giorno a meno di cento.

Il merito non è solo di Kishida, certo: scienziati e accademici da tempo studiano il caso giapponese, e ci sono varie teorie a riguardo – la distanza sociale interiorizzata dai cittadini, le mutazioni troppo veloci che hanno costretto il virus alla “autoestinzione”, l’enzima Apobec3a, frequente tra gli asiatici, che attacca i virus a Rna. Un ruolo fondamentale l’ha avuto l’altissimo tasso di vaccinazione, che ha superato la soglia del 75% dei residenti con doppia dose, e ha fatto da scudo protettivo in un paese con una altissima percentuale di antivaccinisti: il governo di Tokyo ha capito che una buona comunicazione, combinata con l’urgenza dei cittadini di liberarsi del virus, avevano facilitato la vaccinazione di massa.

Fumio Kishida

 

In ogni caso, l’andamento piuttosto incoraggiante della situazione pandemica in Giappone ha reso la vita facile al nuovo premier, che ha ottenuto la fiducia del suo partito, il Partito Liberal Democratico, e quello degli elettori al voto anticipato del 31 ottobre scorso.

E’ quindi comprensibile la decisione di Kishida che da metà dicembre, dopo l’allarme per la nuova variante Omicron, ha annunciato la chiusura dei confini agli stranieri e il ritorno della quara, una delle misure più dure simile a quella presa da Israele. “Sono pronto ad accettare tutte le critiche di quelli che diranno che l’Amministrazione Kishida è troppo cauta”, ha detto il Primo Ministro, ma era una frase rivolta in realtà all’opinione pubblica interna, che non avrebbe tollerato altre restrizioni all’interno del paese.

 

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Kishida è nella fase di consolidamento del suo potere, e deve ancora pienamente dimostrare doti da leader. Una caratteristica non scontata per i capi del governo nipponico a cui siamo abituati. Dal 1947 a oggi ci sono stati 64 primi ministri in Giappone (per fare un paragone, dal 1945 a oggi l’Italia ha avuto 30 presidenti del Consiglio). Fu Shinzo Abe, quando tornò al governo nel 2012, a ridare al paese un periodo di stabilità dopo anni di primi ministri che cambiavano di anno in anno. Abe era un leader come lo era il suo mentore politico, Junichiro Koizumi, e di loro si conoscevano le idee, avevano un peso specifico nella politica internazionale, hanno dato il loro volto a riforme e strategie economiche (la privatizzazione delle Poste nel caso di Koizumi, la politica ultra-espansiva della cosiddetta Abenomics nel caso di Abe). Tutti gli altri sono state delle comparse, compreso Yoshihide Suga, il Primo ministro giapponese che ha preso il posto di Abe dopo le sue improvvise dimissioni per motivi di salute, nell’estate del 2020.

Suga, che era stato ministro dell’Interno nel 2006 e un ottimo capo di gabinetto di Abe, era stato scelto proprio perché in quella fase particolare c’era bisogno di continuità: è arrivato infatti nel momento di massima crisi del Giappone, quando i Giochi olimpici erano a rischio, e c’era la prima fase della pandemia da affrontare. Suga era il grigio funzionario da sacrificare: a settembre aveva portato l’indice di gradimento del Partito Liberal Democratico a un record storico, in negativo: sotto il 30%. Nella liturgia della politica nipponica, ogni momento di crisi è ben controllato dalla leadership del partito di maggioranza – quello che è stato sempre al governo, praticamente, tranne poche eccezioni. Il partito, formato da diverse correnti istituzionalizzate e potenti, ha sempre premiato i negoziatori, cioè quelle figure politiche che sapevano navigare tra le varie anime della formazione. Kishida è uno di questi, e il suo passato da dirigente del Partito lo dimostra. E’ un uomo vicino a Shinzo Abe, ma con idee molto più centriste rispetto al suo predecessore, considerato un conservatore di ferro.

Il suo passato dice molto di lui. 64 anni, nato a Tokyo da una famiglia di politici – com’è nella tradizione del Giappone, dove la politica è un affare di famiglia – Kishida ha trascorso gran parte della sua infanzia a New York, e ha studiato Legge alla Waseda, una delle Università più prestigiose della capitale giapponese. Dopo qualche anno nei ministeri minori, il vero salto di qualità lo ottiene nel 2012, quando Shinzo Abe lo sceglie per guidare il ministero degli Esteri.

Kishida è stato il capo della diplomazia più longevo della storia del dopoguerra nipponico, ed è anche per questo che è molto apprezzato anche all’estero. Rispetto a Shinzo Abe, non ha una storia familiare ingombrante: il nonno di Abe è Nobusuke Kishi, accusato di aver commesso alcuni dei più gravi crimini di guerra durante il seconda conflitto mondiale. In generale, Abe è un politico che ha sempre rivendicato la sua appartenenza alla destra storica giapponese, e le sue visite al controverso santuario Yasukuni lo dimostrano – il santuario commemora chi “morì per il Giappone” nelle guerre dell’800 e del ‘900. Per esempio, una delle proposte bandiera del governo Abe era la riforma dell’articolo 9 della Costituzione, quello che vieta al Giappone di avere un esercito regolare. Una riforma osteggiata da gran parte dell’opinione pubblica giapponese e soprattutto da Cina e Corea del Sud, che vedono nel riarmo nipponico una minaccia. Fumio Kishida è sempre stato ben poco incline a dichiarazioni e promesse forti – come la riforma dell’articolo 9 – ma appena arrivato al Kantei ha detto di essere favorevole a rafforzare il “Quad”, il Quadrilateral Security Dialogue tra Stati Uniti, India, Australia e Giappone, e soprattutto a rilanciare l’amicizia tra Tokyo e Taipei.

Il Giappone è stato il primo Paese a mandare una fornitura di vaccini a Taiwan, quando l’isola era in forte crisi per via dei contagi e si era ritrovata senza contratti con le grandi aziende internazionali come Pfizer e Moderna. Il governo di Taipei guidato da Tsai Ing-wen aveva più volte ringraziato il Giappone – uno degli amici “più sinceri” di Taiwan, ha detto spesso. Il legame tra i due Paesi ha origini lontane – anche se certo non prive di controversie – dai tempi in cui Taiwan era una colonia giapponese, tra il 1895 e il 1945. Ma era appunto la colonia “prediletta” dell’Impero nipponico, che contribuì enormemente al suo sviluppo economico e infrastrutturale. L’amicizia tra Tokyo e Taipei è comunque un asset strategico notevole per Kishida, che ha bisogno di rivendicare la sua attenzione ai “valori condivisi e ai sistemi democratici”, allo stesso tempo sfruttando le eccellenze economiche taiwanesi, per esempio nel campo dei microchip.

Il problema più evidente per il governo Kishida, piuttosto, è la Cina. L’interdipendenza economica tra Tokyo e Pechino è da anni fonte di problemi per l’arcipelago nipponico, perché la diplomazia molto spesso ha influenzato il business, e viceversa.

 

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Shinzo Abe era riuscito in un’operazione molto efficace di riavvicinamento con la Cina, dopo la crisi che sembrava insuperabile del 2010. Il leader Xi Jinping avrebbe dovuto compiere una visita di Stato in Giappone nel 2020, ma la pandemia ha fermato tutto. Non solo: l’Amministrazione americana di Joe Biden vorrebbe rafforzare il ruolo di Tokyo nella coalizione internazionale anticinese. Non è detto però che Kishida voglia far parte del tutto di quella squadra.

 

 

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