Il populismo in Europa e i leader centristi sotto pressione

A margine dell’ultimo Consiglio Europeo del 23-24 ottobre, il Premier britannico David Cameron ha usato toni particolarmente accesi per respingere la richiesta della Commissione di versare altri due miliardi di euro a favore del budget dell’Unione: nella conferenza stampa ha descritto la pretesa come “ingiustificata e inaccettabile”. Perché tanta asprezza? È il ben noto atteggiamento britannico verso il Continente, o vi sono ragioni più profonde? Certo, la crisi morde e le risorse scarseggiano, ma si tratta soltanto di questo?

Il fattore sottostante è probabilmente la crescita del populismo – che ovviamente è euroscettico, se non apertamente “euro-ostile”. Esso ha  un ruolo indiretto nel sollecitare le critiche nei confronti delle istituzioni europee e impone calcoli politici delicati ai governi là dove i partiti populisti hanno conquistato spazi significativi.

È opportuno fare un passo indietro per facilitare la “mappatura” del populismo in Europa dopo le ultime elezioni del Parlamento Europeo. Partendo dal Regno Unito, che insieme alla Francia rappresenta il caso più eclatante, si deve ricordare che qui si è avuta l’affermazione dell’UKIP (United Kingdom Independence Party) di Nagel Farange quale primo partito, che ha avuto quasi 4milioni e mezzo di voti (il 27% dei voti), conquistando 24 dei 73 seggi britannici al Parlamento Europeo. L’UKIP si è messo così in competizione diretta con il partito Tory di Cameron.

In Francia ha vinto il Front National di Marie Le Pen, che è risultato il primo partito francese, con oltre 4milioni e 7mila voti (25% dei voti), ottenendo 24 dei 74 seggi francesi. Non a caso, Marine Le Pen medita di cambiare nome al partito – non senza le ire del padre – per avvantaggiarsi della crisi politica della destra moderata francese, mentre sull’altro versante il Premier socialista François Hollande continua ad arrancare.

In entrambi i casi è opportuno sottolineare il dato relativo all’affluenza alle urne: Regno Unito 37%; Francia 42%. In larga parte, infatti, il populismo è anche un prodotto della disaffezione e della sfiducia dei cittadini nei confronti delle virtù della democrazia rappresentativa.

Gli altri casi nazionali sono meno noti. Quest’anno in Ungheria poco prima delle elezioni europee si sono svolte le politiche nazionali: in questo Paese raccoglie molti consensi la destra di Fidesz, guidata dal Premier uscente Viktor Orban, che nell’occasione ha superato il 45% dei voti garantendosi 2/3 dei seggi parlamentari. Nonostante la diffidenza che serpeggia in Europa nei confronti della figura di Orban, il partito del Premier rischia di apparire una formazione moderata se paragonata ad altri soggetti presenti sulla scena politica ungherese: per fare un esempio, alle europee ha avuto un discreto numero di voti un partito come Jobbik, una formazione neonazista dichiaratamente antisemita. Per completare il quadro si deve aggiungere che importanti affermazioni populiste si sono inoltre registrate in Grecia e Austria. Quali sono le caratteristiche culturali e ideologiche del populismo? È utile qui richiamare il titolo originale di una delle più importanti monografie degli ultimi anni, il classico di Yves Mény e Yves Surrel uscito in Italia come Populismo e democrazia (Mulino, 2001): nell’edizione francese il libro era intitolato Par le peuple, pour le peuple (Fayrad 2000). Si tratta di una versione della massima jeffersoniana – government of the people, by the people, for the people – resa popolare da un discorso di Abraham Lincoln. La tesi di Mény e Surrel è che il populismo nasca negli Stati Uniti nella seconda metà dell’Ottocento, dopo la presidenza di Andrew Jackson (1829-1837), una volta superata la crisi della Guerra di secessione, articolandosi come forte polemica contro la classe dirigente mediante una retorica pauperistica e anti-elitistica. Non a caso, sul piano evocativo il populismo si serve spesso dell’utopia della democrazia diretta. Questa considerazione generale e storica rimane valida nel contesto odierno.

Il quesito è oggi: può il populismo condizionare le scelte politiche dei governi in sede europea? Difficile escluderlo, se si pensa – per esempio – che quando all’interno del Consiglio Europeo è stata votata la nomina di Jean-Claude Juncker alla presidenza della Commissione, vi sono Stati soli due voti contrari: proprio il Regno Unito e l’Ungheria – che, come abbiamo visto, sono in questa fase tra i Paesi a forte presenza di movimenti populisti. E non erano ancora scoppiate le polemiche in merito ai vantaggi fiscali che, in qualità di Premier del Lussemburgo, Juncker avrebbe concesso alle multinazionali estere. Le ragioni della contrarietà britannica e ungherese erano altre, e per la verità molto diverse fra loro; tuttavia si ha la sensazione che il populismo abbia rappresentato in quel passaggio un tratto comune in termini di pressione politica sulle rispettive classi dirigenti.

Nel caso britannico l’euroscetticismo ha radici lontane, che fanno riferimento alla special relationship interna al mondo anglosassone che lega il Regno Unito con gli Stati Uniti, più di quanto lo faccia sentire parte del vecchio continente. Nella politica internazionale, gli Stati Uniti sono succeduti alla Gran Bretagna nella medesima posizione di leadership globale, e la special relationship serve a fornire al Regno Unito l’illusione che possa restare ancora qualcosa di quella lontana primazia. Accanto a questa componente storica e psicologica, vi è poi un ingrediente culturale: il liberalismo anglosassone è poco incline a guardare con favore alle fitte e minuziose regolamentazioni comunitarie, nei confronti delle quali i britannici hanno cominciato a polemizzare già a partire degli anni Ottanta, subito dopo il loro ingresso nella CEE (avvenuto soltanto nel 1975 dopo un apposito referendum). Oggi, la crescita politica di UKIP ha almeno due effetti: da un lato rafforza nella competizione interna ai Tory le correnti euro-scettiche (sempre presenti), dall’altro rappresenta un’insidia elettorale molto concreta, spingendo il partito del Premier verso le posizioni della destra europea. Il voto contro Juncker identificava nella sua figura un simbolo della costosa burocrazia europea dominata dalla Germania, con cui il Regno Unito ritiene di avere pochi interessi in comune. Si arriverà dunque fino all’uscita dall’UE, con il famigerato scenario “Brexit”? Ad oggi è difficile dirlo, ma con ogni probabilità prima o dopo si svolgerà un referendum per la permanenza nell’Unione: a quel punto, gli umori più o meno populisti dell’opinione pubblica britannica faranno la differenza nel decretare l’esito della consultazione.

Nel caso dell’Ungheria, l’euroscetticismo ha spiegazioni più prossime nel tempo. Il governo di Viktor Orban ha subito una procedura d’infrazione da parte della Commissione Europea del 2012, a causa di un pacchetto di riforme che diminuiva l’indipendenza della banca centrale, dava meno tutela della privacy dei cittadini e insidiava l’indipendenza della magistratura (attraverso il prepensionamento di centinaia di magistrati). Secondo alcuni commentatori, il governo di Orban sarebbe una sorta di “dittatura populista” che rischia di rappresentare un modello pericoloso, soprattutto per gli Stati di più recente ingresso. Nel caso ungherese quindi il voto contro Juncker era soprattutto una reazione a difesa della propria sovranità, messa in discussione dall’Unione in nome di princìpi e valori comuni di matrice liberaldemocratica.

Dunque, abbiamo almeno due circostanze in cui il populismo sembra aver già condizionato l’output politico di governi radicalmente diversi come quello britannico e ungherese. E si deve presumere che questa pressione interna continuerà ad avere degli effetti. Va anche riconosciuto, d’altra parte, che l’Unione fatica da troppo tempo a ritrovare figure dello spessore di un Jacques Delors, in grado di reggere anche in virtù della propria autorevolezza personale alle scosse telluriche del populismo. In tal senso le élite politiche europee hanno certamente dei margini di miglioramento nel rispondere alle pressioni di nuovi movimenti politici e dell’opinione pubblica.

Per molti aspetti questo problema non fa che confermare l’upgrade che la leadership ha assunto con la “mediatizzazione della politica”: l’idea di assegnare ruoli di prestigio a Tony Blair in ambito europeo sembrava essere il frutto di questa consapevolezza, che tuttavia – favorendo l’ex Premier britannico o altri leader di pari spessore – non si è mai concretizzata, privando l’Unione della possibilità di identificarsi con il volto politico di un leader all’altezza dei propri compiti. Succede quindi che il populismo sia in sintonia con la politica contemporanea, diversamente dall’Unione Europea che invece rischia di essere “mediata” dalla voce impersonale delle sue strutture – spesso viste come distaccate e poco sensibili agli umori dell’elettorato.

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