All’indomani delle elezioni che hanno visto il fronte moderato rafforzare la propria presenza sia nel Parlamento che nell’Assemblea degli Esperti (organo incaricato di scegliere il prossimo Leader Supremo), il presidente Hassan Rouhani ha dichiarato che il nuovo anno iraniano – che inizia il 20 marzo – sarà caratterizzato da “prosperità economica”. Il settore energetico sembra però, a giudicare dalla situazione attuale, rimanere relativamente marginale nella ripresa economica iraniana.
Sin da quando è stato eletto presidente nel giugno del 2013, Hassan Rouhani ha sottolineato la necessità per la nuova amministrazione di risollevare l’economia dalla grave recessione che ha caratterizzato gli otto anni di governo Ahmadinejad. La sua determinazione è stata sostenuta dal Leader Supremo, Ayatollah Ali Khamenei, che ha indicato come priorità del regime una crescita annuale dell’8%. Rouhani ha dunque concentrato tutti gli sforzi del suo governo sulla risoluzione del dossier nucleare – che aveva originato le sanzioni contro il paese da parte di Nazioni Unite, Stati Uniti ed Unione Europea, colpendo in particolare il settore finaziario e quello energetico. L’embargo petrolifero imposto dai paesi dell’UE nel 2012 e la rimozione di una serie di banche iraniane dalla rete di trasmissione dati SWIFT, in particolare, avevano contribuito all’isolamento dell’Iran dal mercato internazionale e a una forte riduzione degli introiti governativi provenienti dalle esportazioni di petrolio.
Da gennaio, a seguito dell’implementazione dell’accordo nucleare e della conseguente eliminazione delle sanzioni, le speranze di una ripresa economica del paese sono progressivamente aumentate. Rouhani ha infatti invitato le compagnie internazionali a reinvestire in Iran, impegnandosi a rendere il clima economico iraniano più invitante e sicuro. Soprattutto durante il suo recente viaggio a Roma e a Parigi è stata firmata una serie di accordi con grandi compagnie europee (tra cui Danieli e Peugeot), pronte a rientrare nel mercato iraniano.
Di conseguenza, la possibilità di riallacciare relazioni commerciali anche con le compagnie petrolifere, all’indomani della fine dell’embargo sul petrolio, è vista con maggiore interesse. L’Iran costituisce infatti il secondo paese al mondo per riserve di gas naturale ed il quarto per quelle di petrolio. Il governo ha dunque cercato anche di promuovere (per ora senza successo, a causa dell’opposizione degli operatori nazionali) nuovi contratti su petrolio e gas; questi saranno naturalmente decisivi per garantire investimenti internazionali nel settore energetico del paese. I ministri iraniani hanno inoltre dichiarato la volontà di riportare il paese ai livelli di produzione di petrolio che risalgono a prima delle sanzioni (in media 3,6 milioni di barili al giorno fino al 2011), aumentando le esportazioni di crudo di 500,000 barili al giorno.
Tuttavia, due considerazioni sembrano frenare l’amministrazione sul pieno sviluppo del settore energetico come motore dell’economia del paese.
In primo luogo, vi è una motivazione di politica interna. Rouhani ha fissato tra gli obiettivi nel programma di governo quello di ridurrela dipendenza degli introiti governativi dalle esportazioni di petrolio, elemento che ha caratterizzato l’economica iraniana sin dagli anni ’70. Durante il governo Ahmadinejad, tale dipendenza aveva comportato una politica clientelare, basata sulla distribuzione di sussidi e causa dell’aumento esponenziale dell’inflazione (che nel 2013 era arrivata al 40%) e della perdita di valore della valuta iraniana (deprezzata di circa l’80%). La nuova politica economica dovrebbe al contrario basarsi sulla penetrazione in quei paesi che hanno già una presenza in Iran – ad esempio, appunto, Italia e Francia -, sulla diversificazione, e sulla crescita del settore privato, in particolare puntando ad accrescere le esportazioni nel settore non energetico. In tal modo, l’economia iraniana è tornata a crescere dell’1.5% nel 2014, dopo due anni di recessione, e l’inflazione è scesa al 13%. È dunque probabile che Rouhani, forte del consenso ricevuto dalla popolazione alle ultime elezioni, approfitti proprio della debolezza del mercato del petrolio per portare avanti il suo progetto di diversificazione economica.
In secondo luogo vi è una motivazione di politica estera. In meno di due anni il prezzo del petrolio è crollato di circa il 70%, con grandi ripercussioni a livello globale: sembra che la ragione principale sia un eccesso di offerta sul mercato. L’eliminazione delle sanzioni e l’annuncio della volontà di aumentare la produzione petrolifera di 500.000 barili al giorno hanno suscitato un po’ ovunque preoccupazioni per un’ulteriore aumento dell’offerta di petrolio. A gennaio, Arabia Saudita e Russia (assieme a Venezuela e Qatar) hanno annunciato un accordo preliminare sul congelamento della produzione petrolifera, proprio per evitare che i prezzi scendano ancora. A causa dell’andamento negativo dei prezzi del petrolio, l’Arabia Saudita ha riportato un deficit di bilancio record per 98 miliardi di dollari nel 2015, mentre la Russia, colpita anche dalle sanzioni internazionali, ha annunciato che dovrà tagliare del 10% la spesa pubblica.
La reazione iraniana a quello che potrebbe costituire il primo accordo da decenni tra paesi OPEC (Organizzazione dei Paesi esportatori di petrolio) e non OPEC è stata ambivalente. Da una parte, il governo ha criticato l’accordo definendolo un tentativo di bloccare il ritorno dell’Iran sul mercato energetico, dopo un’assenza di quattro anni durante i quali “alcuni paesi hanno aumentato la propria produzione, causando il crollo dei prezzi”. Dall’altra, Teheran non ha del tutto escluso la possibilità di aderire all’intesa tra Russia e Arabia Saudita, al fine di stabilizzare un mercato che nel breve periodo rischia di diventare meno redditizio per tutti.
E’ difficile prevedere quale decisione prenderà alla fine il governo di Rouhani. Al momento, l’amministrazione sembra incline a rifiutare un accordo, almeno fino a quando l’Iran non avra’ raggiunto i livelli di produzione che risalgono al periodo prima delle sanzioni (4 milioni di barili al giorno). Tuttavia, anche aumentando la produzione, lo stato non riceverebbe comunque gli introiti che ricavava nel 2012, dati i prezzi bassi. E allo stesso tempo, potrebbe aggravare le già tese relazioni con l’Arabia Saudita, visto che i due Paesi sono già schierati su fronti avversi in Siria e in Yemen.
L’amministrazione Rouhani potrebbe pertanto decidere di proseguire la politica economica adottata negli ultimi due anni, favorendo i settori non energetici fino alla fine dell’attuale mandato (giugno 2017). Il fatto che, a gennaio, Rouhani abbia definito la fine delle sanzioni internazionali “un’opportunità per tagliare il cordone ombelicale del petrolio mentre i prezzi sono bassi”, sembra indicare l’intenzione del governo di procedere in questa direzione.