¡Viva México! era il grido degli indipendentisti messicani all’inizio dell’Ottocento. Tre volte lo ha ripetuto Andrés Manuel López Obrador per chiudere il suo primo discorso da presidente del Messico, lo scorso 1 dicembre. Quel discorso, e in generale tutta la sua retorica politica, era ricco di richiami al passato, all’epoca d’oro dello “sviluppo stabilizzatore” (circa 1940-1970) a cui López Obrador vuole rifarsi per liberare il paese dal «disastroso» modello economico neoliberista degli ultimi decenni.
Andrés Manuel López Obrador – o AMLO, più in breve – ha 65 anni, è stato sindaco di Città del Messico ed è un nazionalista di sinistra. Ha vinto le elezioni del luglio 2018 con il 53% dei voti, un risultato storico che garantisce a lui e alla sua coalizione, capeggiata dal Movimento di Rigenerazione Nazionale, una confortevole maggioranza nelle due camere del Congresso. La grande popolarità di AMLO tra i messicani si deve alla sua immagine di uomo semplice e austero, di campione dell’onestà contro la corruzione incarnata dal Partito Rivoluzionario Istituzionale (PRI), il partito di centro che ha governato ininterrottamente il Messico fino al 2000, per poi tornare al potere nel 2012 con l’impopolare Enrique Peña Nieto.
UN NAZIONALISTA VECCHIA SCUOLA. Nonostante se ne presenti come distante, AMLO si è formato politicamente proprio nel PRI – nella “vecchia scuola” nazionalista e statalista –, e questa formazione emerge continuamente dalle sue parole e dalla sua agenda. Promette non solo un cambio di governo ma un cambio di regime, una «quarta trasformazione» del Messico dopo la guerra d’indipendenza dalla Spagna, il periodo delle riforme liberali e laiciste (noto come La Reforma, nella seconda metà dell’Ottocento) e la rivoluzione del 1910 contro il dittatore Porfirio Díaz. Il suo mito personale è il presidente indigeno Benito Juárez, che liberò il paese dagli invasori francesi. Ambisce all’autosufficienza alimentare (il mais è una «pianta benedetta», dice) ed energetica, rievocando la lunga stagione della nazionalizzazione del settore petrolifero del 1938, abbandonata solo nel 2013 da Peña Nieto. Vuole che lo stato torni ad intervenire attivamente nell’economia, come regolatore supremo e come garante dell’occupazione attraverso grandi progetti infrastrutturali: una nuova raffineria, due nuove ferrovie, ettari ed ettari di frutteti.
Da un lato AMLO esalta il vecchio modello statalista del desarrollo estabilizador, che dagli anni Quaranta agli anni Settanta rese possibile, grazie anche ad una congiuntura favorevole, la crescita del mercato interno mantenendo l’inflazione sotto controllo. Dall’altro lato, invece, demonizza il modello neoliberista introdotto dagli anni Novanta, che ritiene responsabile del tracollo non solo economico ma anche morale del Messico: perdita dell’autosufficienza energetica, disuguaglianza, corruzione.
In realtà, la storia dell’apertura economica messicana, iniziata con l’ingresso nel NAFTA assieme a Stati Uniti e Canada (1994), è molto più complessa di così. Effettivamente la crescita è stata bassa per una nazione emergente – poco più del 2% l’anno – ma è stata costante. Le riforme strutturali hanno dato quella stabilità che nel XX secolo è mancata più volte. Le esportazioni sono passate a rappresentare una parte rilevante del PIL. Il Messico ha smesso di dipendere dal petrolio ed è diventato un importante produttore automobilistico e manifatturiero, attirando grandi compagnie straniere. Possiede accordi di libero scambio con moltissimi altri paesi, compresa l’Unione Europea, ed è oggi un partner imprescindibile – è attualmente il primo socio commerciale – degli Stati Uniti.
Al contempo però la disuguaglianza economica e la povertà sono rimaste molto alte, specialmente nel sud, che non è riuscito ad abbracciare l’industrializzazione e che continua ad appoggiarsi al petrolio e alla piccola agricoltura. AMLO ha lasciato intendere di volersi focalizzare proprio sulle risorse naturali – greggio, colture tipiche – mettendo forse in secondo piano quei settori che hanno migliorato le condizioni delle regioni centrali e settentrionali.
Il Messico è oggi la seconda economia più grande dell’America Latina. Ma all’apertura economica non è corrisposta una sufficiente apertura politica. Il Paese non si è ancora liberato dei retaggi dell’antico regime illiberale e a partito unico, che rimangono ben visibili nella corruzione, nella scarsa applicazione dello stato di diritto e nella debolezza delle istituzioni democratiche. López Obrador non è certamente il populista radicale e autoritario dipinto dalle opposizioni: con il venezuelano Hugo Chávez condivide al massimo un certo culto della sua persona e l’aura di salvatore della patria, che ha portato lo storico Enrique Krauze a definirlo «il messia tropicale».
Però è vero che AMLO sembra avere intenzione di rafforzare ancora di più il ruolo del presidente: il richiamo continuo al referendum, ad esempio, viene giudicato una modalità di accentramento del potere a scapito dei già deboli organi rappresentativi. AMLO non ha intenzione di ricreare un monopolio partitico come quello del PRI – anche perché oggi in Messico mancano le condizioni necessarie – ma certamente il voto popolare gli ha garantito un mandato “forte” che, se combinato al capitale politico di cui dispone grazie all’alto indice di gradimento, potrebbe permettergli di realizzare quel cambio di paradigma che ha promesso.
TRA NON INGERENZA E SFIDE REGIONALI. La formazione politica di López Obrador all’interno del PRI “vecchia scuola” è ben visibile anche nel suo approccio alla politica estera. Laddove il suo predecessore Peña Nieto aveva ricercato per il Messico una maggiore proiezione globale – accordi commerciali, più attivismo nei forum multilaterali, partecipazione alle missioni di pace dell’ONU –, AMLO ha fatto ritorno al principio tradizionale della diplomazia priista, la non ingerenza. Detto con le parole del presidente: «Non ci immischiamo negli affari interni degli altri paesi perché non vogliamo che gli altri governi si intromettano nei nostri». AMLO non si pronuncia nemmeno più sulle parole di Donald Trump riguardo il muro e la frontiera, che ritiene essere – nonostante l’ardore dimostrato in campagna elettorale – questioni tutte interne alla politica americana.
«La miglior politica estera è la politica interna», ama ripetere AMLO, segno del suo sostanziale disinteresse per il mondo al di fuori dei confini nazionali. Il contesto regionale sembrerebbe però suggerire al neopresidente la necessità di un convinto protagonismo.
La crisi in Venezuela continua ad essere gravissima, e l’esodo della popolazione sta raggiungendo anche il Messico: nel 2015 solo 57 cittadini venezuelani vi avevano cercato asilo politico; nel 2017 il numero è salito a 4042. Contro Caracas la precedente amministrazione Peña Nieto aveva svolto un ruolo di leadership negli organismi regionali, come l’Organizzazione degli stati americani (OAS) e il Gruppo di Lima. AMLO ha scelto invece la strada della neutralità: non con Nicolás Maduro, ma soprattutto non con Juan Guaidó.
Nonostante l’opposta collocazione sullo spettro politico, difficilmente AMLO fungerà da contrappeso al nuovo presidente del Brasile Jair Bolsonaro. Mentre il primo non ha grande interesse per la politica estera, il secondo vuole portare avanti un’agenda globale. Un asse Brasilia-Washington – Bolsonaro è un ammiratore di Trump – si tradurrebbe in una pressione diplomatica più aggressiva nei confronti di Venezuela e di Cuba. Più prudente, nonostante le dichiarazioni, sarà la posizione di Bolsonaro nei confronti della Cina, che ha fatto grandi investimenti in Brasile e che è sempre più presente in America latina. AMLO, al momento, non sembra aver pronta una strategia verso Pechino, al di là di una generica intenzione di riequilibrare la bilancia degli scambi; l’idea di affidare alla Cina la costruzione di una ferrovia sull’istmo di Tehuantepec – con lo scopo di farne un nuovo canale di Panamá – è stata abbandonata vista la natura strategica del progetto.
La pressione migratoria proveniente dal Triangolo del nord del Centroamerica (Guatemala, Honduras, El Salvador), infine, potrebbe diventare presto una questione di politica interna per AMLO. Trump vorrebbe infatti fare del Messico una sorta di “anticamera” al sistema dell’immigrazione americano: fare sì, cioè, che i migranti che richiedono l’asilo negli Stati Uniti aspettino in Messico il (lungo) tempo di valutazione della loro domanda. L’accordo – che è stato raggiunto e ampliato nel corso dei mesi, anche se il governo messicano lo ritiene una misura unilaterale – scarica l’onere dell’accoglienza dei migranti sul Messico, attualmente impreparato a gestire così tante persone in condizione di vulnerabilità: la maggior parte dei migranti che arrivano alla frontiera americana sono oggi famiglie con bambini.
AMLO ha già annunciato un piano di investimenti nel Triangolo del nord per migliorare le condizioni di vita e ridurre l’emigrazione, a cui gli Stati Uniti si sono offerti di partecipare in maniera più simbolica che concreta. Il programma è in germe ma ci sono già dubbi sulla sua efficacia: i risultati, comunque, saranno visibili solo nel medio-lungo termine.