Il nuovo Grande Gioco allargato attorno all’Afghanistan

Il 19 ottobre la Commissione elettorale indipendente (Iec) avrebbe dovuto annunciare i risultati preliminari del voto presidenziale del 28 settembre scorso ma, come molti pensavano, ha posposto la data a un futuro indeterminato. Tutto è labile e fragile in questo Paese, e le elezioni non fanno eccezione. Come fa notare Afghanistan Analysts Network, il più accreditato centro di ricerca indipendente locale, la Commissione ha resi noti diversi aggiornamenti sull’affluenza alle urne, due dei quali sulla pagina Facebook di uno dei commissari (l’ultimo dà quasi 2,7 milioni su 9,6 aventi diritto).

Un modo per rendere noto che i dati ufficiali sul flusso elettorale ancora non sono completi ma anche un modo piuttosto inusuale per far sapere e non sapere com’è andato il voto, a parte la bassa affluenza. La confusione non ha fatto che aumentare sospetti e accuse di brogli che, come da copione, abbondano. E comunque, attestando un’affluenza parziale inferiore al 30%, il bilancio è davvero scadente: oltre il 10% in meno rispetto alle politiche del 2018 che già avevano registrato una partecipazione bassa ma comunque vicina al 40% con punte del 75% (Bamyan, ora al 49) o anche dell’80% (Daykundi, ora al 68).

In queste elezioni presidenziali si confrontano soprattutto il presidente Ashraf Ghani e il suo “secondo” Abdullah Abdullah. Per lui, dopo le presidenziali 2014, per risolvere lo stallo dovuto alle accuse di brogli dalle due parti era stata inventata la carica di Chief Executive, una sorta di premier. Le elezioni si sono svolte in un clima di tensione e paura per le minacce talebane, che sono state in grado di far chiudere centinaia di seggi e hanno compiuto circa 400 attentati in tutto il Paese. Alla paura si è unita la disillusione degli afgani sui possibili risultati: vuoi perché la fiducia nella macchina democratica è sempre più debole, vuoi perché il processo negoziale tra americani e talebani si è bruscamente interrotto tagliando le gambe a una speranza, se non di pace, almeno di cessate il fuoco.

Ashraf Ghani e Abdullah Abdullah

 

L’alleato maggiore volta le spalle?

L’arresto improvviso del processo negoziale nei primi giorni di settembre, con un rinvio sine die della firma di un accordo tra americani e talebani, non è però stata l’unica novità nella cornice del processo elettorale. La più eclatante,  alla vigilia del voto, è stata la mossa del segretario di Stato americano Mike Pompeo che ha in sostanza cancellato 160 milioni di dollari promessi all’esecutivo guidato da Ghani per “incapacità” e “scarsa trasparenza”. Accuse gravi, ma solo le ultime di una lunga serie.

Le dichiarazioni di Pompeo – che han fatto temere a Ghani di aver perso l’appoggio del suo alleato più importante – erano state precedute dai rilievi dello Special Inspector General for Afghanistan Reconstruction che ha il compito di valutare efficacia ed efficienza nelle spese che dal 2002 gli Stati Uniti sostengono in Afghanistan per la ricostruzione (circa 132 miliardi di dollari). Nel suo ultimo rapporto al Congresso, l’ispettore generale John Sopko ha sostenuto che per il futuro saranno necessarie “forti misure di trasparenza e controlli interni, nonché la loro supervisione”. Un’ipoteca sul domani ma anche una critica al comportamento passato del Governo di unità nazionale  e alle misure anti corruzione varate da Ghani, i cui risultati non sono stati giudicati soddisfacenti.

Alla vigilia delle elezioni, a Kabul, circolava voce che Washington avesse deciso di cambiare cavallo. Forse uno dei tanti rumor, come l’ipotesi che – a fronte di uno stallo possibile al momento dei risultati se i due candidati maggiori fossero testa a testa – gli alleati stranieri potrebbero imporre un governo ad interim, magari mettendo Ghani e Abdullah “in panchina”. Una sorta di governo di garanzia o di transizione, insomma, con l’obbiettivo di far ripartire il dialogo coi talebani – che hanno sempre tacciato Ghani e Abdullah di “burattini” – ora nelle secche.

La regione geopolitica attorno all’Afghanistan

 

Russia e Cina

Ma gli americani – e più defilata la Nato – non sono gli unici player della partita afgana anche, se ne restano i principali. Il secondo grande giocatore è la Russia, che si è finora mossa con relativa discrezione, ma facendo lievitare il suo peso diplomatico. Mosca ha giocato d’anticipo assai prima delle elezioni, ospitando riunioni coi talebani, corteggiando l’opposizione a Ghani e restituendo un palcoscenico all’ex presidente Hamid Karzai, tra i più propensi a dimenticare l’ingombrante passato di Mosca.

Vladimir Putin sa di non avere in mano soluzioni e che molto dipenderà dall’andamento del negoziato e dalla guerra, ma la Russia è riuscita ormai a conquistarsi un peso significativo, sia sul tavolo interno afgano sia su quello internazionale. Anche l’altro grande player asiatico, la Cina, è in attesa; ma intanto è andata avanti con i suoi affari. Controlla parte del settore minerario e si prepara a fare dell’Afghanistan uno dei tanti hub della One Belt One Road, quale che sia il nuovo governo a Kabul.

 

L’eterna contesa India-Pakistan

Non solo le grandi potenze mondiali, ma anche i Paesi vicini contano quando si parla di Afghanistan. Non tanto per le aspettative dei Paesi dell’Asia Centrale, cerniera tra Kabul e l’Asia post-sovietica, quanto per l’eterna rivalità tra Delhi e Islamabad: il confronto indo-pakistano si svolge anche nello scenario afgano

In questi anni i due Paesi hanno fatto a gara per acquistare influenza sull’Afghanistan e per avere un governo amico a Kabul. La partita l’ha vinta in parte Nuova Delhi, cui l’Afghanistan ha concesso l’apertura di numerosi consolati, in cambio di aiuti, denaro e investimenti in infrastrutture conditi da dichiarazioni congiunte di eterna amicizia. Invece, Islamabad sconta un’antipatia diffusa tra gli afgani verso il Pakistan, accusato di essere la retrovia talebana. Ma il Pakistan, proprio per i suoi rapporti con gli studenti coranici, resta un interlocutore ineludibile anche se obtorto collo. Le cose si sono ulteriormente complicate dopo i raid aerei tra India e Pakistan all’inizio dell’anno, e ancor più dopo la cancellazione dell’autonomia del Kashmir indiano decisa da Delhi.

 

A occidente di Kabul

Di un governo amico a Kabul hanno bisogno anche gli iraniani. Che questo governo sia in mano ai pashtun o ai tagichi poco importa. Importa invece che il governo di domani possa contenere la presenza americana e soprattutto il suo controllo sulle basi aeree afgane, da cui si può minacciare il fianco orientale della Repubblica islamica. Secondo diverse fonti infatti, l’accordo tra americani e talebani comprenderebbe (negli annessi che non sarebbero resi pubblici) una clausola che garantirebbe agli USA il controllo delle basi aeree afgane (inclusa quella di Bagram, a poca distanza da Kabul). Il controllo è già garantito da un accordo bilaterale firmato da Ghani, ma sarebbe confermato nonostante il ritiro di una parte delle truppe americane.

Teheran ha investito molto in politica estera in questi anni e su più fronti, compreso quello talebano, tanto da ospitare a Mashhad, sul suo confine orientale, una shura (consiglio) della guerriglia. La diplomazia persiana continua a lavorare con attenzione a Kabul, mentre controlla parte della stampa locale e ha sempre in mano (non meno dei pachistani) l’arma del ritorno dei profughi afgani. La sua azione e presenza sono costanti e la silhouette di un’imponente moschea con annesso istituto di studi, che già da tempo si staglia all’inizio della grande strada di Darul Aman che porta al parlamento di Kabul, ne è il simbolo più evidente.

 

Gli occhi del Golfo

Le monarchie del Golfo Persico – non tutte allineate tra loro – non possono certo trascurare ciò che accade a Kabul. Dove c’è l’Iran, ci sarà anche la sponda opposta, quella sunnita e saudita, sotto l’egida dell’Arabia Saudita. Apparentemente Riad sembra più defilata rispetto al passato, ma i suoi legami coi gruppi jihadisti, settari e antisciiti – sia in Pakistan sia in Afghanistan – restano una vecchia abitudine, e così l’alleanza storica con la famiglia Haqqani, la fazione più ortodossa e radicale del movimento talebano. Senza contare la presenza di cellule attive dello Stato islamico che, in molti casi, hanno giocato un ruolo, direttamente o indirettamente, favorevole agli interessi di Riad.

Anche il Qatar, che ha l’aspirazione di crescere come potenza regionale, ha giocato la sua carta  ospitando l’ufficio politico dei talebani e incassando così tutte le vittorie connesse al negoziato talebano-americano, condotto proprio a Doha. Infine gli Emirati Arabi Uniti sono la cassaforte degli afgani: il flusso di denaro da Kabul non si è mai interrotto né si interromperà, quale che sia il nuovo governo dell’Afghanistan.

 

 

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