Il nuovo governo dei palestinesi in formazione

Quando si è sparsa voce che il Primo ministro dell’Autorità Palestinese Mohammad Shtayyeh si è dimesso, e che gli subentrerà Mohammad Mustafa, a Ramallah la reazione di molti è stata: E chi è? Eppure, è al governo da vent’anni. Dietro le quinte: che qui significa avere un ruolo centrale.

L’ultimo consiglio dei ministri di Mohammad Shtayyeh, il 26 febbraio

 

Originario di Tulkarem, 69 anni, Mohammad Mustafa, indipendente senza tessere di partito (mentre Shtayyeh era di Fatah), è un economista di formazione americana. Si è laureato in Ingegneria a Baghdad, ma poi ha studiato negli Stati Uniti, alla George Washington University, e da lì, esperto di gas e petrolio, ha cominciato la sua carriera alla Banca Mondiale. Consigliere speciale di Mahmoud Abbas dal 2005, cioè da quando questi è presidente, è stato ministro dell’Economia nel 2014 –  per guidare la ricostruzione di Gaza dopo l’ultima guerra. Per idee e biografia, è molto simile a Salam Fayyad, l’altro economista della Banca Mondiale che da Primo ministro è stato l’artefice dello sviluppo della Cisgiordania, e che fino a ieri, tanti erano certi sarebbe stato richiamato al governo: e che però, è malvisto dai palestinesi, che gli imputano di avere basato l’economia su prestiti facili e debiti. Su illusioni. Ha una reputazione internazionale stellare: ma in effetti, l’Autorità Palestinese è vicina alla bancarotta.

Il nuovo governo, che si propone di governare anche Gaza, sarà un governo tecnico. E nei corridoi della Muqata, il quartier generale dell’Autorità, ti dicono che Mohammad Mustafa è stato scelto perché tra i tecnici è l’unico ad avere un minimo di legittimazione popolare: è tra i 16 membri del Comitato Esecutivo dell’OLP, l’organizzazione che rappresenta i palestinesi a livello internazionale. E che conduce le trattative con Israele. Ma in realtà, non è stato scelto per questo. In fondo, quanto conta l’opinione dei palestinesi? Non si vota dal 2006.

La sua nomina, la nomina di uno che anche per anagrafe appartiene alla classe dirigente palestinese che firmò con Israele gli Accordi di Oslo (1993), è senza dubbio un segnale di continuità mirato a rassicurare gli Stati Uniti. Un po’ un tentativo di ritorno al 6 ottobre, cioè prima dell’attacco di Hamas a Israele, per quanto possibile. Ed è una nomina che fluidifica i rapporti con l’Arabia Saudita, per cui Mohammad Mustafa ha lavorato: il Paese che pagherà larga parte della ricostruzione di Gaza. Secondo le stime dell’ONU, il conto sarà sui 20 miliardi di dollari: cinque volte quello della guerra del 2014. Ma soprattutto, la nomina di Mohammad Mustafa è una nomina che tutela Mahmoud Abbas: e il blocco di potere e affari che gli sta intorno.

Il prossimo capo del governo palestinese Mohammad Mustafa con il presidente dell’ANP Mahmoud Abbas

 

Perché dal 2006 Mohammad Mustafa è a capo del Palestine Investment Fund, la controversa architrave dell’economia di Ramallah: con oltre un miliardo di dollari, è il primo investitore, in ogni campo, dall’edilizia alle telecomunicazioni all’energia alle strade. Le sue risorse arrivano dall’Autorità Palestinese. E cioè, essenzialmente, dalla comunità internazionale. Ed è stato creato proprio su insistenza internazionale, perché all’inizio, gli Accordi di Oslo avevano istituito la Arab Palestinian Investment Company: il cui board includeva, e include, personaggi come Tareq Abbas, uno dei figli di Mahmoud Abbas, diventato da zero uno dei maggiori imprenditori. Per avere più trasparenza, i finanziamenti ora sono diretti al Palestine Investment Fund. Ma da lì, spesso, sono girati all’Arab Palestinian Investment Company: non è cambiato molto. Come spiegano i Panama Papers già dal 2015. Per un certo periodo, Mohammad Mustafa ha presieduto entrambi.

Ma non è solo con gli Stati Uniti e l’Arabia Saudita che si cerca il compromesso. Accettando un governo tecnico, Hamas fa il promesso passo indietro. Per consentire un passo avanti sul cessate il fuoco a Gaza. In realtà, il problema vero resta la sostituzione dell’88enne Mahmoud Abbas, che è il presidente dell’Autorità Palestinese, ma anche il segretario di Fatah, e il capo dell’OLP: è qui che si gioca la partita tra Hamas e Fatah. E tra Hamas e Israele. Mustafa da capo del governo non sarà una figura di primo piano: il suo ruolo è più amministrativo che politico. Tanto più che questo è soltanto un governo transitorio per affrontare l’emergenza: in teoria entro due anni si dovrebbero finalmente tenere le elezioni.

Tuttavia, la scelta colpisce. Trentamila morti, e settemila dispersi, e Gaza in polvere, per nominare un Primo ministro che è già al potere da vent’anni? E con una delega all’Economia? Il settore gestito peggio? Consigliere speciale di Mahmoud Abbas: che dal 7 Ottobre, tace, dal 7 Ottobre non ha ancora mai parlato ai palestinesi? Sembra tutto tranne che un segnale di rinnovamento.

Come già Salam Fayyad, e ogni altro ministro dell’Autorità Palestinese, Mohammad Mustafa ha sempre sostenuto che l’economia è strangolata dagli Accordi di Oslo. Da limitazioni strutturali. E ha ragione. Il governo non controlla neppure le tasse e i contributi, che come è noto sono riscossi da Israele, e poi versati a Ramallah, e spesso trattenuti come mezzo di pressione e ritorsione – e costituiscono il 65% delle entrate, le restanti vengono da donazioni e investimenti internazionali. Ma la responsabilità dei conti in rosso non è tutta di Israele. Il parlamento è stato sciolto nel 2018, Mahmoud Abbas decide da solo, per decreti: e senza parlamento, non esiste un bilancio. Si spende e basta. E questo non dipende dagli Accordi di Oslo.

L’intesa sul nuovo governo è solo il primo banco di prova: ma per ora, segnala come non mai il totale distacco dei governanti, e di tutti i governanti (perché questo è un governo di unità nazionale) dai governati. Secondo l’ultimo sondaggio del Center for Policy and Survey Research, il 60% dei palestinesi non chiede solo nuove elezioni: chiede la dissoluzione dell’Autorità Palestinese.

E non è necessario un sondaggio, basta stare qui, per sentirsi dire quello che è proibito scrivere, perché va contro la retorica della “resistenza”: e cioè che vogliono andare tutti via. Anche se in effetti, non vanno via per Israele: se il problema fosse solo Israele, resterebbero a resistere. No: vogliono andare via da tutto il resto, dallo sconforto di un’immobile situazione interna. In questo, il 7 Ottobre non ha cambiato assolutamente niente.

 

 

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