C’è tanto di inatteso nel risultato elettorale francese di domenica 7 luglio. Il sorpasso del Fronte Popolare sul Rassemblement National. Il terzo posto dei lepenisti, che partivano dallo status di primo partito. La reazione degli elettori contro l’estrema destra, grazie a un’affluenza alle urne straordinaria, benché si pensasse che l’idea della “barriera repubblicana” fosse ormai cosa del passato, e l’ipotesi dell’estrema destra a Parigi ormai normalizzata. La resilienza dei macroniani, grazie a una rendita di posizione centrista che ancora funziona. Infine: un’esplosione di pluralismo in un’arena politica dove, invece, abbondano i meccanismi per accentrare il potere e ridurre a unità la complessità. Ci sono tre blocchi, sì, ma ognuno con le sue articolazioni interne, e nessuno in grado di imporsi da solo. Per la prima volta da tre decenni la costruzione e la composizione del nuovo governo sarà in mano al parlamento e non al Presidente della Repubblica.
Il secondo turno ha cambiato insomma le carte in tavola rispetto al primo, che si era chiuso con il Rassemblement National (RN) e liste collegate in vantaggio al 31%, seguito dal Fronte Popolare (l’alleanza di sinistra radicale, verdi e socialisti, FP) al 28%, e i macronisti al 20%. E qui, per inciso, è corretto sottolineare quanto incidano le leggi elettorali sui sistemi politici: solo tre giorni prima in Regno Unito le elezioni a turno unico erano state vinte dai Laburisti di Keir Starmer, che con una percentuale di voti simile a quella del RN rastrellavano ben due terzi di tutti i seggi in parlamento. Il Rassemblement National invece è stato neutralizzato al ballottaggio dal meccanismo delle “desistenze”, con cui sia i macronisti che la sinistra rinunciavano a presentarsi nei collegi dove avevano meno speranze di vincere, facendo confluire tutti i voti su un unico candidato alternativo alla destra. Gli elettori hanno aderito in massa, e il risultato è stato ribaltato.
Maggioranze da inventare
E adesso, chi governa? Il parlamento è cristallizzato in tre blocchi che – in teoria – si presentano tutti in opposizione l’uno all’altro. (rimandiamo più in basso a un’analisi dei loro elettori e dei territori di riferimento, utile anche a comprendere come non solo politicamente ma anche socialmente si tratti di “tre France” alternative). C’è inoltre da non sottovalutare la componente dei Repubblicani, la destra di matrice gaullista che è riuscita ad eleggere un numero non indifferente di deputati.
Il Fronte Popolare ha più seggi dei tre, e dovrebbe avere il diritto di provare per primo a presentare al parlamento il suo governo, dove basta la maggioranza relativa dei deputati per ottenere la fiducia. Almeno così ha richiesto, subito, Jean-Luc Mélenchon, figura di riferimento della componente più radicale e già candidato due volte all’Eliseo: e voglio come minimo l’abrogazione dell’aumento dell’età pensionabile a 64 anni che Macron aveva approvato per decreto, il blocco dei prezzi per i prodotti di largo consumo, e l’aumento del salario minimo a 1600 euro – ha aggiunto.
Per tutta risposta Emmanuel Macron ha respinto le dimissioni del capo del governo in carica, Gabriel Attal, “per il momento”, e ha detto che ha bisogno di tempo per affidare qualsivoglia incarico. Questa mossa potrebbe essere più significativa di quanto sembri. Nel 2022, alle elezioni parlamentari, il gruppo macronista fu il più votato, ma perse la maggioranza assoluta che aveva nella legislatura precedente: gliene restava una soltanto relativa. A quel punto però Macron respinse le dimissioni che seguendo una prassi costituzionale in vigore da oltre un secolo la prima ministra Elisabeth Borne aveva logicamente rassegnato. Borne restava capo del governo, “per il momento”, diceva Macron, e intanto operava un rimpasto che includeva nell’esecutivo alcuni indipendenti di centro-sinistra e centro-destra, utili per allargare il perimetro della maggioranza. Il “momento” con cui fu evitato lo scomodo passaggio della sanzione di fiducia del nuovo parlamento durò fino al marzo del 2024, quando Borne fu accantonata da Macron in favore di Attal.
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E’ lecito pensare che il Presidente stia valutando se riprovare il suo stratagemma. C’è qualche problema in più, stavolta: intanto il fatto che il gruppo macronista non ha più nemmeno la maggioranza relativa: è passato dai 351 seggi del 2017, ai 245 del 2022, ai 168 di adesso. Tentare la forzatura di mantenere il controllo diretto del governo sarebbe uno schiaffo al Fronte Popolare che di seggi ne ha 182 e che reclama la guida dell’esecutivo. E che teme che alcuni dei suoi deputati moderati, socialisti o verdi, possano cedere alle sirene presidenziali in favore delle larghe intese. Ma sarebbe anche schierarsi contro l’orientamento dell’opinione pubblica, che va nella direzione – lo dimostra la progressione negativa dei seggi – di una progressiva e stabile diminuzione dei consensi a Macron. Due ostacoli che, se fosse soltanto per il Presidente della Repubblica, sarebbero rimossi comunque senza problemi.
La via italiana
Un governo di “larghe intese” potrebbe anche essere affidato a una personalità esterna, meno identificabile con la macronìa, per indorare la pillola che gli elettori di sinistra e in parte minore quelli di destra dovrebbero ingoiare per accettarlo. Sempre se lo faranno: è chiaro che La France Insoumise, la componente più radicale del Fronte Popolare, quella di Mélenchon, non lo accetterà mai. Se succedesse, se la componente più moderata “tradisse”, il Fronte unitario appena costruito – e le divinità della politica sanno quanta fatica costa tenere insieme l’irrimediabilmente litigiosa sinistra francese – andrebbe in pezzi prima ancora di aver digerito tutto lo champagne bevuto per festeggiare la sua storica vittoria.
Ma non c’è nessun “Mario Draghi francese” che sappia incarnare questo compromesso tra le parti, lamentano alcuni. Altri ricordano invece come in Italia l’esperienza di Draghi si chiuse appunto con l’implosione della sinistra. Seguita dall’arrivo trionfale al governo dell’unico partito che ne era rimasto fuori, quello di Giorgia Meloni. La “via italiana” offre dunque una prospettiva sia a chi spera nelle larghe intese a base centrista, sia a chi spera nel loro fallimento, come Marine Le Pen. Il suo Rassemblement National è stato fermato dai francesi, è vero – “il fronte della vergogna”, ha definito, furiosa, la leader, l’intesa stipulata dagli altri partiti contro di lei – ma non va dimenticato che è il primo partito con più del 30%, e che le elezioni anticipate gli hanno comunque fruttato 143 deputati, 54 in più di quanti ne avesse prima dello scioglimento deciso da Macron. Ha più di dieci milioni di voti, un tesoro elettorale che quasi nessuno in Europa può vantare.
Ma è presto per avere certezze, e a maggior ragione per orientarsi nel sottobosco della politica parlamentare, con le sue trappole, le sue prede e i suoi lupi. Emmanuel Macron, dopo la sconfitta alle europee del 9 giugno, aveva sciolto l’Assemblea invitando i francesi a “fare chiarezza”. La decisione, elogiata da alcuni fuori dalla Francia, continua ad essere criticata in patria come “incoerente e avventata”, secondo il quotidiano liberale Le Monde, o “un rischio incondivisibile”, come l’ha definita il pur macroniano Attal. Di chiaro, ha prodotto due cose: la testimonianza di una Francia politicamente plurale, conseguenza coerente della crisi dei governi unilaterali e anti-partitici di Macron. E la volontà netta della maggior parte del Paese di tenere fuori l’estrema destra dal governo.
Come su Trisolaris, il pianeta immaginato dall’ingegnere cinese Liu Cixin nel romanzo di fantascienza “Il problema dei tre corpi”, i francesi si sono divisi in tre grandi nuclei elettorali che si muovono l’uno attorno all’altro e in reazione all’altro, ma attraverso moti separati, interagendo sì, ma senza toccarsi mai. Tre poli separati per localizzazione nello spazio, per aspirazioni e modo di intendere la vita, per rapporto con il resto della società.
Seconda stella a destra
Il caso del Rassemblement National di Marine Le Pen è legato in maniera indissolubile, come una corda annodata a un albero, alle vicende recenti della Francia degli ultimi decenni e degli ultimi anni. Fin dalla sua nascita, più di mezzo secolo fa (1972), quando Jean-Marie Le Pen diede vita al Front National con l’obiettivo di restituire cittadinanza politica alle correnti reazionarie, autoritarie e ultranazionaliste a cui la storia aveva tolto la voce. Ma si sbaglierebbe a pensare che quello del fondatore fosse un partito marginale: già alle elezioni europee del 1984 superò il 10%, due milioni di voti. Il patriarca Jean-Marie non usava giri di parole: “Spero di vivere abbastanza per veder crepare l’Europa”, commentò allora. Alle presidenziali del 1988, superò il 14%.
Il suo FN cominciò a radicarsi allora in due territori-chiave, ancor oggi i suoi due pilastri, in precedenza dominati dal Partito Comunista Francese, che allora aveva imboccato il suo declino. Il primo è il Nord-est, dove si stava avviando il grande smantellamento di uno dei più poderosi sistemi industriali d’Europa. In un processo pluridecennale, sparì il lavoro operaio, sparì il mondo politico-sindacale che gli era legato, con il suo attivismo e le sue solidarietà, sparirono gli investimenti pubblici e con essi le scuole, o i medici, o altri servizi di prossimità. Il lavoro divenne più raro, e il potere contrattuale dei dipendenti scarso: il sentimento di chi si sentiva scivolare verso il fondo della scala sociale fu catturato dalla retorica lepenista che individuava negli immigrati, o negli “assistiti” (dalle politiche sociali, spesso le stesse persone), coloro contro cui prendersela, coloro da cui difendersi, coloro rispetto a cui “noi” dovevamo rimanere preferiti.
Anche nel Sud mediterraneo, da Perpignan alla Costa Azzurra, si verificava un certo impoverimento, dovuto alla fine dell’industria ma anche alla concentrazione dei settori produttivi più innovativi in altre aree del Paese, come attorno a Lione o nell’Ovest atlantico. La retorica anti-immigrazione e anti-globalizzazione trovava terreno fertile tra i francesi rientrati dall’Algeria indipendente, che si erano spostati in quelle province, e tra le nuove generazioni dei discendenti dell’immigrazione italiana, arrivata lì cinquanta o cent’anni prima. Entrambe le categorie, spesso artigiani, commercianti, piccoli imprenditori, guardavano con sgomento alle ondate di immigrazione magrebina che stavano cambiando il volto della Francia meridionale.
Nei due casi il voto al Front e poi al Rassemblement National ha dato un’identità politica a queste tendenze sociali, anche vaga e mutevole: dalla ribellione all’accentramento delle risorse “altrove”, al razzismo. Si tratta di territori dove pesa la distanza socio-culturale, un sentimento cementato ad esempio durante i lunghi mesi di protesta dei gilet gialli: contro le élite urbane progressiste, i benestanti di sinistra che fanno la lezioncina dai loro bei quartieri, e contro le élite patrimoniali conservatrici, i miliardari di destra che evadono le tasse e collezionano yacht. A spiegare il boom lepenista degli ultimi anni, oltre alla rinfrescata data da Marine, senz’altro meno estremista e più convincente del padre, c’è anche che Macron – ricordiamo il suo passato da banchiere Rothschild con la tessera del partito socialista – viene identificato in entrambe le categorie.
La Francia di Macron e la sua opposizione di sinistra
Il consenso del Presidente, in effetti, ha compiuto una traversata. E’ salpato dal centro-sinistra nel 2107, quando Emmanuel Macron è arrivato alla candidatura alla presidenza da ministro dell’Economia molto pro-business durante il quinquennato socialista di François Hollande. Ha navigato poi tra gli appartenenti alle fasce più dinamiche, meglio formate e più affluenti del Paese, dalle zone benestanti della regione di Parigi all’Ovest atlantico. Per approdare infine al porto sicuro del conservatorismo moderato: dirigenti, imprenditori, pensionati, non interessati da condizioni economiche precarie. La metà degli elettori di Ensemble ha già spento 70 candeline.
I critici sottolineano come la politica di Macron (e la “distanza” di cui abbiamo parlato, spesso trasformata in aperto disprezzo reciproco) abbia prodotto la crescita del Rassemblement National. Ma è un fatto che al Presidente sia convenuto, in questi anni, essere “contro” Le Pen: nei tanti ballottaggi che caratterizzano la politica francese, primo di tutti quello per l’Eliseo, ha sempre vinto grazie ai voti dei suoi, sì, che però non sono mai stati più del 20-25%: ma soprattutto grazie ai voti di chi non voleva lasciar vincere l’estrema destra. In effetti, era questo il calcolo fatto anche prima di queste elezioni anticipate, indette in fretta e furia la sera del 9 giugno, per ventuno giorni dopo: di fronte alla minaccia di Le Pen, e con una sinistra divisa (sottinteso: a cui non darò tempo di unirsi), i francesi sceglieranno di nuovo me. Il soufflé è uscito dal forno, ma gonfio solo da una parte: i francesi hanno effettivamente fermato l’estrema destra, ma hanno fatto vincere il Fronte Popolare.
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Con il suo ottimo risultato, il FP ha dunque sostituito (ma non cancellato) Macron come polo alternativo all’estrema destra. Ma l’unione tra radicali, verdi e socialisti non è il frutto di un’ammucchiata messa su soltanto per eleggere qualche parlamentare in più. Di certo, l’idea che le forze progressiste si fossero unite, mettendo per un attimo da parte protagonismi e distinguo vari, ha galvanizzato i simpatizzanti: tra questi, la gran maggioranza è tra i giovani, nelle città e nelle periferie, in ogni caso dove c’è un tessuto sociale vivo e attivo, e anche integrazione etnica. Non è un caso che molti calciatori della nazionale – tutti francesi nati da seconde o terze generazioni di immigrati dall’Africa centrale, tutti provenienti dall’area metropolitana di Parigi – abbiano preso apertamente posizione contro il Rassemblement National. L’unità del Fronte ha dato così un significato supplementare al voto: voto come “barriera antifascista”. Mica male, per partiti di sinistra spesso e volentieri disprezzati persino dai propri elettori.
Ma è anche un consenso costruito in anni di proteste e mobilitazioni sindacali e sociali proprio contro Macron e i suoi governi. E non è un caso che la sua vittoria coincida con un grande aumento della partecipazione elettorale, che è tornata a livelli che non si vedevano da trent’anni. A coronare una pratica di opposizione netta, a volte incendiaria, sempre a pugno chiuso: “Siamo uniti su un programma di rottura, per cambiare tutto”, ribadiscono i sette della dirigenza collettiva del Fronte.
Tanto che un buon numero di macroniani non solo ha escluso per tutta la campagna elettorale qualsiasi collaborazione di governo con il loro, e si capisce; ma alcuni si sono pure rifiutati di sostenerli ufficialmente nei ballottaggi contro candidati dell’estrema destra, seppure poi gli elettori lo abbiano fatto.
I sette del Fronte hanno promesso che “entro una settimana” decideranno chi è il loro candidato a guidare il governo: non ci si può mica mettere d’accordo su tutto prima del voto. Intanto però, va notato che in Europa non c’è al momento una formazione di sinistra tanto forte, su posizioni tanto radicali. L’insediamento di un governo a Parigi in cui esponenti del Fronte Popolare abbiano un qualche peso potrebbe avere delle conseguenze sugli equilibri politici di un’Unione Europea finora impegnata a interrogarsi su come gestire l’avanzata della destra.