A una settimana dall’inizio dell’invasione militare della Russia verso le terre della “madre” Kiev, sono già tanti i tabù infranti da una guerra che per la prima volta sentiamo come una crisi europea, dopo essere rimasti indifferenti all’intervento di Mosca in Georgia (2008) e all’annessione della Crimea (2014). Dopo avere sottovalutato a lungo, insomma, parole e fatti dello Zar del Cremlino.
Il primo tabù infranto tocca in profondità il Dna dell’UE: da “potenza normativa”, convinta della forza del suo esempio ma di fatto protetta dagli Stati Uniti, l’Europa geopolitica solo a parole ha deciso di diventarlo nei fatti. Si è nettamente schierata e ha per la prima volta deciso di dare armi letali a un paese in guerra ai suoi confini. E’ l’inizio di una difesa europea complementare alla NATO, sempre evocata e mai realizzata. Queste scelte, così come le sanzioni, non basteranno a fermare la Russia, anche se la isolano sul piano internazionale e potranno incrinare all’interno, ma soltanto nel tempo, il potere di Vladimir Putin.
L’andamento della guerra resterà affidato alla capacità di resistenza degli ucraini stessi, che gli Stati Uniti e l’Europa cercano di rafforzare senza rischiare però uno scontro diretto, potenzialmente distruttivo, fra la NATO e il suo principale avversario nucleare. C’è chi sostiene, fra l’élite russa che prende le distanze da Putin sull’Ucraina, che l’Europa potrebbe aiutare più attivamente una mediazione. L’assunto è che niente e nessuno riuscirà a influenzare dall’interno lo Zar del Cremlino; mentre potrebbe riuscire una figura internazionale.
Leggi anche: Ucraina, tra combattimenti e trattative
In una intervista di ieri alla BBC, Andrey Kortunov, Direttore generale del RIAC (Russian International Affairs Council), sostiene che Angela Merkel sarebbe la persona giusta per spingere Putin verso un cessate il fuoco con Zelensky, seguito poi da una trattativa sul Donbass. L’alternativa è un lungo impantanamento della Russia in un paese che non riuscirà a controllare; e che continuerà ad esprimere una resistenza, con i suoi costi umani. L’Ucraina diventerà così il fronte della nuova guerra fredda fra un Occidente più unito di quanto Putin prevedesse e una Russia che tenderà a indebolirsi negli anni.
E’ caduto, con la guerra in Ucraina, anche il tabù della neutralità a tutti i costi per paesi come la Svizzera (che ha accettato sanzioni finanziarie senza precedenti) e la Finlandia, che considera per la prima volta, insieme alla Svezia, una possibile adesione alla NATO. Una terza sveglia ucraina è risuonata a Berlino: il cancelliere Olaf Scholz ha rivoluzionato in due giorni decenni di Ostpolitik, decidendo aiuti consistenti della spesa militare e buttando a mare Nord Stream 2. Sembra già del passato l’immagine di una Germania “mercantilista”, con il cuore a Bruxelles e il portafoglio tra Mosca e Pechino.
Sul fronte energetico, la guerra in Ucraina segna un altro cambio di passo, per quanto tremendamente tardivo. L’Europa prende finalmente atto che dipendere così massicciamente dal gas di Mosca (così come da qualsiasi fornitore esterno potenzialmente ostile) determina una forte vulnerabilità politica. L’intero impianto della transizione energetica – che è di fatto una transizione economico-industriale – non potrà che tenere conto di questa realtà: la politica energetica è anche, forse prima di tutto, una politica di sicurezza (per i cittadini e gli Stati).
Il quinto segno lasciato dalla prima settimana di guerra in Ucraina è sul fronte dell’accoglienza. Di fronte all’ondata di rifugiati che si sta riversando al confine di Polonia, Romania e Ungheria – quasi un milione di persone secondo le stime dell’UNHCR – si incrina almeno in parte la resistenza dei Paesi collocati ad Est, finora impegnati a chiudere le frontiere e ad osteggiare un sistema di quote concordato tra Paesi membri. Si applicherà la direttiva di protezione temporanea (asilo immediato e libertà di movimento in Europa), che era sempre rimasta sulla carta: questo sussulto solidale dei Paesi ex sovietici (con l’eccezione parziale di Budapest) è un altro effetto collaterale della campagna di Putin, che si vedrà tuttavia quanto reggerà a flussi di immigrazione da Sud.
Si può aggiungere un punto di particolare importanza per l’Italia. Se due anni di pandemia avevano prodotto la sospensione del Patto di stabilità, le conseguenze economiche della guerra sono destinate a condizionare, in senso espansivo, il futuro della politica fiscale europea.
Per tutte queste ragioni, il debito morale europeo nei confronti di Kiev non può che modificare il modo in cui discutere di rapporti fra l’Ucraina e l’UE. Mentre combatte anche per noi, Kiev deve sapere di potere contare su una prospettiva europea. C’è chi ha ricordato i vincoli burocratici, chi invece gli ostacoli economici che tagliano la strada che avvicina Kiev a Bruxelles.
Ma oggi il punto non è questo, quando ancora non sappiamo quale Ucraina emergerà dalla guerra. Il punto è di offrire una rassicurazione politica, con un gesto che Mosca considera ostile e Kiev ritiene invece vitale. Lo status di Paese candidato è soprattutto un simbolo, nelle condizioni tragiche attuali; ma è al tempo stesso il minimo che possiamo offrire per riconoscere che il sacrificio del popolo ucraino aiuta l’Europa a entrare nel XXI secolo.
Una versione di questo articolo è stata pubblicata su Repubblica del 4/3/2022