C’è un prima e un dopo nel mercato petrolifero, e quindi nelle relazioni che lo costituiscono, a seconda che lo si guardi prima o dopo l’accelerazione della guerra di dazi voluta da Donald Trump nei confronti della Cina. Uno degli ultimi colpi di scena, il più rilevante ai nostri fini, è la decisione cinese di minacciare ritorsioni sulle importazioni di beni energetici dagli Stati Uniti: se applicata, potrebbe cambiare profondamente gli equilibri che si stavano costruendo nei mercati, a cominciare da quello del petrolio.
Nel mercato del petrolio, infatti, come osservato in una recente ricognizione degli analisti di Platts, andava sempre più configurandosi una reciproca interdipendenza fra Stati Uniti e Cina, paesi che sembrano condannati a piacersi dalla ragione economica, a dispetto di quella politica. Questa relazione è iniziata nel 2015, quando gli Stati Uniti decisero di rimuovere il divieto di esportare petrolio, e ha trovato il suo alimento nel boom della produzione di shale oil, che nell’arco di pochi anni ha trasformato gli USA in grandi produttori proprio mentre la Cina consolidava il suo primato di paese importatore. Detto in altro modo: il greggio statunitense ha un disperato bisogno di compratori per sostenere l’alto livello di investimenti dell’industria nazionale; e la Cina è il compratore ideale, visto che il petrolio non le basta mai. I cinesi sono diventati di fatto il driver della crescita della domanda globale di petrolio.
A fronte dei 13,55 milioni di barili complessivamente consumati a maggio scorso, 440 mila in più rispetto a un anno prima e 2,37 milioni in più rispetto a cinque anni fa, secondo alcune stime il consumo cinese di petrolio arriverà a superare i 14 milioni di barili entro fine 2019. La produzione statunitense svolge lo stesso ruolo di driver sul lato dell’offerta. Platts stima che la produzione mondiale di greggio passerà dagli attuali 95 milioni di barile al giorno (bpd) a 105 milioni nel 2025 e molto di questo aumento sarà petrolio statunitense light crude estratto dai bacini shale e in particolare da quello Permian in Texas. Entro il 2025 gli Usa dovrebbero esportare 4 milioni di barili al giorno, 2,5 dei quali in Asia.
E Asia vuol dire innanzitutto Cina. Nel primo trimestre 2017 i cinesi importavano 175 mila barili dagli Stati Uniti. Un anno dopo la media era di 358 mila barili, più del doppio, con il picco di 448 mila barili raggiunto nell’ottobre scorso. Una quota importante ma ancora lontana dagli 1,3 milioni di barili comprati da Pechino in Russia, primo fornitore cinese, e dagli 1,1 milioni importati dall’Arabia Saudita (secondo fornitore) il milione importato dall’Angola (terzo fornitore). La cifra però si avvicina ai 660 mila importati da Iraq e Iran. Questi dati, riferiti al primo trimestre 2018, ci dicono una cosa molto semplice: il petrolio statunitense si sta (o si stava) avviando a diventare una componente fissa, e quindi strategica, dell’import cinese. Quindi la domanda cinese, per le stesse ragioni, sta (o stava) diventando una componente fissa e quindi strategica dell’industria shale statunitense. Da cui l’interdipendenza.
Ciò avviene innanzitutto per ragioni tecniche legate ai processi di raffinazione. Le raffinerie statunitensi sono in grado di processare diversi tipi di greggio. Per convenzione si distingue fra petrolio sweet/sour, a seconda della minore o maggiore quantità di zolfo, o light/heavy a seconda del grado di densità rispetto all’acqua. La qualità del petrolio influenza il suo valore. I greggi più leggeri e con meno zolfo sono più pregiati perché facilitano i processi di raffinazione. Il greggio WTI venduto dagli USA è un light sweet di maggiore qualità che prima del 2010, quando è iniziata la rivoluzione shale, costava appunto più dell’altro benchmark internazionale, il Brent, composto da una miscela di greggio estratto nei mari del Nord.
L’aumento della produzione negli USA ha fatto calare i prezzi del greggio WTI che ora quota a sconto rispetto al Brent. Il WTI ha caratteristiche ottimali per le raffinerie cinesi, che come quelle degli Stati Uniti sono in grado di processare diversi tipi di greggio, e in particolare per il settore delle raffinerie indipendenti, il cui peso relativo è notevolmente cresciuto nel settore – si stima che ormai rappresentino circa un quarto del totale – da quando il governo cinese nel 2015 rimosse il limite alle importazioni di greggio.
Il fatto che proprio nel 2015 gli Usa abbiano tolto il divieto delle esportazioni di greggio è una coincidenza magari, ma merita di essere sottolineata. Il risultato di queste politiche incrociate è visibile nel dato di marzo 2018, quando le raffinerie indipendenti cinesi hanno raggiunto il massimo di importazioni a quota 2,34 milioni di barili al giorno. Questo settore si caratterizza per la sua incapacità a processare greggi sour e quindi può importare solo petrolio con poco zolfo, proprio lo sweet che gli USA forniscono più che volentieri.
Almeno altri due fattori concorrono affinché la Cina sia il luogo naturale dove gli Stati Uniti vendano il loro petrolio. La prima: la politica anti inquinamento del governo cinese – l’anno scorso è stato abbassato il livello consentito di zolfo nella benzina e nel gasolio – che ha spinto i raffinatori a indirizzarsi verso greggio con meno zolfo. E poi anche la lunga transizione dell’economia cinese da investment-based a economia che punta sullo sviluppo dei consumi, che richiede anche un diverso tipo di carburanti. Talché la domanda di distillati leggeri cresce più velocemente di quella per combustibili più pesanti tipicamente usati nell’industria. Il greggio shale estratto negli USA ha le caratteristiche ideali, per questioni puramente merceologiche, per soddisfare le esigenze dell’economia cinese. Produttori statunitensi e raffinatori cinesi sono fatti per intendersi. I politici purtroppo no.
I dazi decisi da Trump, infatti, intervengono in questo scenario e la risposta cinese ha un effetto destabilizzante sul delicato equilibrio che si stava consolidando. Da un punto di vista squisitamente quantitativo, i dazi minacciano più gli USA, che esportano il 15% circa della loro produzione in Cina, piuttosto che i cinesi, per i quali il petrolio statunitense pesa circa il 3,5% delle loro importazioni. Ma la questione dirimente è altrove.
Come opportunamente osservato da Kenneth Medlock, senior director alla Rice University’s Baker Institute Center for Energy Studies, in una dichiarazione pubblicata da Platts, “l’attuale retorica mercantilista è dannosa per la crescita economica e può provocare conseguenze geopolitiche a lungo termine, stabilendo relazioni commerciali diverse da quelle attuali”. Il punto è tutto qua. La Cina dovrà sostituire i barili acquistati dagli Usa e questo potrebbe spingerla ancora di più di adesso nelle braccia dell’OPEC+, il cartello dei produttori tradizionali con l’aggiunta della Russia. Al tempo stesso gli USA dovranno trovare compratori per il loro greggio e potrebbero essere costretti a spingere i prezzi al ribasso, visto che il dazio renderebbe il WTI più costoso per i cinesi, e quindi meno competitivo, del Brent nordeuropeo, e non è detto che ciò sostenibile o tantomeno desiderabile per i produttori.
Ma aldilà degli aspetti economici, questo scenario riporta indietro le lancette della storia in una sorta di riedizione fuori tempo massimo delle dinamiche della Guerra fredda. La Cina, entrata negli ultimi decenni nei meccanismi dell’economia occidentale, lentamente tornerebbe nell’alveo delle sue relazioni petrolifere tradizionali centrate su Russia, Arabia Saudita, Africa e magari comprando più petrolio dell’Iran, paese finito anch’esso nel mirino statunitense, e già grande esportatore di greggio in Cina. A sua volta gli Stati Uniti dovrebbero trovare compratori sostitutivi fra i loro partner tradizionali, ma il crescere delle tensioni commerciali con questi ultimi, si pensi a Canada o parte dell’Europa, rischia di rendere questa sostituzione molto difficoltosa.
Questa sorta di guerra fredda del petrolio non farebbe bene a nessuno, né alle relazioni internazionali né tantomeno ai produttori con quelli Usa in testa. E non tanto nel breve periodo, ma nel medio-lungo: la prospettiva di non poter più contare sulla grande e crescente domanda cinese potrebbe raffreddare l’entusiasmo dell’industria statunitense, che in questi anni ha corso a perdifiato, e i relativi investimenti.
“Mentre la Cina potrebbe procurarsi il greggio da fonti alternative come l’Africa occidentale, che ha qualità simili a quelle del greggio statunitense, gli Stati Uniti avrebbero difficoltà a trovare un mercato alternativo grande come la Cina”, ha sottolineato Wood Mackenzie, una società di consulenza molto attiva nei mercati energetici. “L’industria è molto preoccupata”, ha detto a Platts Joe McMonigle, analista di Hedgeye Capital. E non solo per le tariffe cinesi ma “per le politiche commerciali in generale”. Raffreddare il commercio significa congelare la produzione e di conseguenza il consumo di energia. E non solo di petrolio. I dazi cinesi minacciano anche l’import di carbone dagli Usa, che è più rilevante di quello di petrolio, e un domani potrebbero colpire anche il gas naturale liquefatto (LNG) del quale la Cina è una grande importatrice.
Si tratta di produzioni che non sono soltanto strategiche per l’economia degli Stati Uniti, ma anche per la politica. L’idea che la Cina avrebbe continuato a comprare petrolio e carbone americano se non fosse stato per i dazi di Trump rischia di essere molto più insidiosa per la popolarità del presidente, rispetto a quella del recupero di un deficit commerciale che si trascina da decenni e di cui solo pochi capiscono l’importanza. Ai cinesi questo nesso non sfugge di certo.