Il negoziato nucleare e le tre generazioni dell’Iran

Il 2 aprile è stato il giorno di Sizdah Be-dar in Iran, l’ultimo del no-ruz (il capodanno persiano), dedicato tradizionalmente dalle famiglie ai picnic e alle gite familiari. Una giornata quindi particolarmente importante per gli iraniani, in cui la diffusione e il commento delle notizie di attualità raggiunge il culmine, grazie ai folti assembramenti nei parchi, nelle case di campagna e nei principali luoghi di ritrovo delle città.

Non a caso, quindi, la diplomazia iraniana ha insistito per un’accelerazione del processo negoziale che consentisse di sfruttare al massimo la propagazione della notizia sui negoziati, trasformandola in una vittoria epocale per il governo ed amplificandone la portata in modo esponenziale nella società iraniana.

Colonne di auto si sono riversate per le strade di Teheran e delle principali città dell’Iran nella serata del 2 aprile, invadendo i viali con assordanti sequele di clacson e slogan urlati a gran voce da una moltitudine di giovani che inneggiava all’accordo.

È l’immagine di un Paese spesso letto dagli occidentali attraverso lo stereotipo della teocrazia e del rigore islamico, e che invece presenta un livello di complessità e diversità pressoché unico nel panorama regionale. Che festeggia oggi non una vittoria di regime, ma quello che è diffusamente percepito come l’inizio di una nuova fase della propria storia.

La società iraniana è rappresentata da una piramide generazionale inversa rispetto alla media di quelle europee, con il 70% circa dei suoi componenti compresi in una fascia di età giovanile di under-35, e la restante parte distribuita più o meno equamente tra coloro che si collocano nelle fasce di età tra i 35 e 55 e poi ancora tra i 55 e i 75.

Una società quindi essenzialmente giovane, dove tuttavia coesistono tre differenti generazioni che rappresentano altrettante distinte componenti della cultura e soprattutto della politica.

La prima generazione è quella genericamente riconducibile a coloro che hanno fatto la rivoluzione, e quindi dato vita all’insieme delle correnti e dei movimenti che hanno saputo poi innescare e dominare quel processo politico che tra il 1978 e il 1979 ha fatto crollare il sistema monarchico scegliendo poi la via della Repubblica Islamica. Fanno parte di questa generazione gli esponenti del cosiddetto “clero combattente”, e cioè quella piccola parte del clero che prese parte alla rivoluzione dominandola nella sua fase conclusiva. Ma anche tutti coloro che in epoca rivoluzionaria e pre-rivoluzionaria componevano l’articolato e disomogeneo quadro politico nazionale, formato dai sostenitori della linea teocratica ma anche dai marxisti, dagli islamico-marxisti, dai nazionalisti, dai costituzionalisti e da tutto l’insieme delle forze antimonarchiche che si unirono temporaneamente nel processo rivoluzionario, per disperdersi poi subito dopo.

La prima generazione è quella che ha materialmente costituito la Repubblica Islamica, e che trova nei valori rivoluzionari e religiosi gli elementi di coesione politica e culturale del proprio insieme. Si tratta della componente che ha espresso i cosiddetti “patriarchi”, e cioè il gruppo di influenti figure politiche e religiose che ha dominato la vita istituzionale, amministrativa ed economica del Paese sino ad oggi.

In termini di politica estera, il trait d’union della prima generazione è sempre stato rappresentato dalla volontà di mantenere e difendere la propria indipendenza dagli Stati Uniti (e dall’URSS prima del 1989), alimentando un sentimento di coesione basato sulla forte identità dello stato teocratico sciita. In tale direzione, quindi, ogni apertura verso gli Stati Uniti costituiva di fatto il tradimento dei principi rivoluzionari e di indipendenza del Paese, assicurando anche la protezione della società dal forte richiamo da sempre esercitato dal mondo occidentale, considerato corrotto e decadente.

Ulteriore elemento caratterizzante della prima generazione, sopravvissuta alla difficile prova della guerra con l’Iraq e alla transizione del Khomeinismo, è da sempre stato quello di non voler varcare la “linea rossa” del confronto con gli Stati Uniti, nella piena consapevolezza di non poter affrontare convenzionalmente un nemico di tale portata. Non a caso, quindi, i più rigidi detrattori del programma nucleare sono proprio gli esponenti della prima generazione, a partire dalla stessa Guida Suprema Ali Khamenei.

La seconda generazione iraniana è invece costituita da coloro che hanno combattuto per l’indipendenza e la sopravvivenza della Repubblica Islamica negli otto anni di guerra che dal 1980 al 1988 hanno visto l’Iraq e l’Iran dissanguarsi senza sosta e senza risultato. Quella che è generalmente conosciuta come la “generazione del fronte” ha sviluppato non solo una relazione cameratesca e un senso di appartenenza che solo i conflitti sanno generare, ma è anche diventata de facto l’erede della componente teocratica della prima generazione.

Il “clero combattente”, infatti, non ha saputo e potuto individuare al suo interno le linee di successione alla gestione politica ed amministrativa del Paese, nominando quindi la componente dei combattenti come sua legittima erede, soprattutto all’interno di quel vasto ed articolato mondo conosciuto come Pasdaran.

La Sepah Pasdaran – esercito parallelo creato alla caduta della monarchia, che non ha sostituito ma affiancato quello tradizionale, l’Artesh – ha conquistato la sua legittimità al fronte, assorbendo gran parte dello sforzo bellico e meritando quindi una specifica collocazione nell’Iran della ricostruzione. Alla smobilitazione delle forze armate dopo la fine del conflitto, la componente della Sepah Pasdaran ha creato un suo entourage composto da ex combattenti che hanno gradualmente ricoperto cariche di crescente importanza nella pubblica amministrazione e nell’industria, divenendo in breve tempo l’ossatura centrale della pubblica amministrazione iraniana.

Questa seconda generazione, gradualmente ascesa ai vertici del sistema politico ed amministrativo dello Stato, non condivide molte delle opinioni e delle valutazioni della generazione precedente. Non ritiene ad esempio problematico aprire al confronto con gli Stati Uniti – che non vengono quindi visti come una minaccia culturale – ma vuole al tempo stesso esercitare appieno quello che ritengono essere il ruolo egemone dell’Iran nella regione. Un ruolo conquistato con 35 anni di guerre, isolamento, contrapposizione e capacità di rappresentare quella che ritengono un’alternativa politica non solo al capitalismo e al marxismo, ma anche all’assolutismo delle monarchie regionali.

Rispetto alla prima generazione, quindi, la seconda ha una visione ben più decisa e meno attendista del rapporto con gli Stati Uniti, di cui teme l’avversione e che non intende affrontare a colpi di pragmatismo. Come del resto dimostrato dalla concezione del pensiero strategico iraniano, di fatto basato sull’asimmetricità della capacità di risposta.

C’è poi la terza generazione, che rappresenta oltre il 70% della popolazione del Paese e che non ha nulla in comune con quella che ha fatto la rivoluzione e quella che ha fatto la guerra, non è rappresentata politicamente all’interno delle istituzioni e della pubblica amministrazione, non ha un suo partito o una sua corrente, ed è di fatto ai margini del sistema economico e produttivo.

Si tratta tuttavia di una generazione in larga misura maggiorenne, e quindi portatrice di un peso elettorale immenso, cui necessariamente le prime due generazioni devono riferirsi nella ricerca del consenso. Sono quelli scesi in gran numero per le strade ieri e questa mattina, inneggiando al ministro degli esteri Zarif come “erede di Mossadeq” (eroe nazionalista per antonomasia in Iran) e glorificando il successo negoziale di Rohani. E sono quelli che a più riprese hanno chiesto l’avvio di un processo di normalizzazione delle relazioni dell’Iran con il resto del mondo, auspicando la fine delle pluri-trentennali sanzioni e il reintegro dell’Iran a pieno titolo nella comunità internazionale.

Si tratta tuttavia di una generazione spesso erroneamente confusa dagli stranieri come antagonista allo Stato e alla Repubblica Islamica, portatrice di valori occidentali e animata da sentimenti rivoluzionari, e che invece vede nella riforma dell’attuale sistema l’unica e probabilmente migliore strada per salvaguardare gli interessi del Paese, la sua dignità e soprattutto le grandi opportunità potenzialmente alla portata dell’Iran. Un gruppo demografico e politico-culturale, quindi, che ha trovato nei vertici storici della prima generazione l’alleato politico e culturale per combattere la battaglia all’isolamento e alla minaccia dal contesto esterno, schierandosi al tempo stesso contro la generazione dei loro padri – la seconda – che considerano ipocritamente ripiegata su sé stessa e soprattutto sui lucrosi interessi di cui è espressione.

È una simbiosi interessante e assolutamente nuova, su cui poggiano le aspettative della gran parte degli iraniani e che, almeno sino ad oggi, ha dimostrato una notevole capacità d’azione.

In questa fase successiva all’accordo quadro del 2 aprile, sarà ancora più importante monitorare con attenzione gli equilibri politici tra i gruppi compositi della soccietà e del sistema politico iraniano.

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