Il nazionalismo europeo e l’Occidente

“I movimenti anti-sistema in Europa, nella versione populista e nazionalista, hanno due origini diverse: la reazione alla crisi economica del 2008 e la reazione alla crisi migratoria del 2015. E’ molto più semplice guadagnare consenso facendo leva sui problemi migratori che sulle disuguaglianze economiche. La Lega, per guardare all’Italia, avrà vita più facile del Movimento 5 Stelle ”. Ivan Krastev, uno dei più brillanti politologi europei della nuova generazione, spiega in che modo la questione migratoria stia profondamente cambiando le dinamiche politiche in Europa, fino ad indebolire notevolmente Angela Merkel.

Si può prevedere, guardando alle elezioni europee del 2019, che partiti euro-scettici acquistino un peso molto rilevante nel Parlamento di Bruxelles. Questo non significa, tuttavia, che nascerà un’alleanza internazionale fra nazionalisti: “Continua a sembrarmi una contraddizione in termini. Certo: esiste una affinità ideologica fra Matteo Salvini, il giovane premier austriaco Sebastian Kurz e l’ungherese Viktor Orbán. Hanno la stessa concezione della democrazia: una democrazia ”esclusiva”, riservata alla propria comunità nazionale, e non ”inclusiva”, disposta ad accogliere altri. Inoltre, sono tutti partiti più vicini alla Russia di Vladimir Putin di quanto non sia l’establishmenttradizionale europeo. Ma le agende sono prima di tutto domestiche, per definizione diverse.

I paesi dell’Europa centro-orientale non hanno alcuno interesse a modificare il regolamento di Dublino o a ricollocare i migranti: l’Italia non può seriamente contare su un asse di Visegrad. E pesa un altro fattore, è rilevante ma se ne parla troppo poco. Ungheria e Polonia hanno sofferto, nel post-1989, un fenomeno imponente di ”brain drain”, hanno perso risorse umane, così come gran parte dei Balcani. Per i governi di questi paesi, i muri nazionali, veri o simbolici che siano, non servono solo a fermare l’immigrazione; servono anche a scoraggiare l’emigrazione, a spingere la gente a restare in patria perché tanto – questo il messaggio dei nuovi nazionalisti europei – l’UE è in crisi e l’Occidente non esiste più”.

Incontro Ivan Krastev a un Convegno di Aspen sull’ascesa globale del nazionalismo. La convinzione di Madeleine Albright, la prima Madame Secretary degli Stati Uniti, è che Europa e America stanno rischiando grosso: fra crisi della democrazia liberale e dazi commerciali, tornano le ombre dei conflitti del secolo scorso. Se Albright guarda alle lezioni del passato (il libro che ha appena pubblicato si intitola “Fascism: A Warning”), Ivan Krastev guarda soprattutto al futuro: “L’ Europa deve riuscire ad adattarsi al fatto che gli Stati Uniti non garantiranno più, in modo esclusivo, la sua sicurezza. Il mondo post 1989 è finito: l’America, già con Obama e oggi in modo diverso con Trump, non ritiene economicamente vantaggiosa la Pax Americana. E comunque non vuole più sostenere il sistema per tutti: la crisi con Berlino lo dimostra”.

L’interrogativo è se su questi presupposti possa ancora reggere l’Occidente: “Donald Trump – risponde Krastev – non pensa alla fine dell’Occidente. Ma lo ridefinisce: l’Occidente, per il capo della Casa Bianca e per Steve Bannon, non è tanto una alleanza politica, è prima di tutto un’entità culturale, fondata sulla cristianità. In questa concezione, la Turchia è fuori, anche se fa parte della NATO; la Russia è dentro. Lo stesso vale per l’Europa. Trump, al di là dell’appoggio che ha dato a Brexit, non punta in modo esplicito a indebolire l’Europa, che è invece un obiettivo di Putin. Ma è convinto che la vecchia relazione atlantica sia troppo squilibrata a sfavore degli Stati Uniti. La polemica sul surplus commerciale tedesco significa questo”.

Sono le alleanze del dopoguerra, quindi, a essere messe sotto particolare pressione: ”Nella visione internazionale di Trump – conclude Krastev – non c’è posto per le alleanze tradizionali, sono un vincolo troppo costoso. La sua idea è che l’America abbia finito per diventare ostaggio del mondo che ha costruito. L’ordine internazionale liberale e istituzioni come il WTO giocano a favore della Cina piuttosto che degli Stati Uniti. Trump scommette quindi sullo smantellamento dei vecchi regimi internazionali, a cominciare dal commercio: è un “distruttore” del vecchio ordine, il capo di una potenza revisionista che ritiene di essere, se il gioco si fa duro e bilaterale, comparativamente più forte. In questa logica, Washington ha bisogno di amici ma non di alleati”.

Se siamo davvero a un cambiamento di epoca, gli europei sembrano reagire ancora troppo lentamente. E soffrono la imprevedibilità del presidente americano, ormai deciso a mettere in agenda un suo summit con Putin. L’Europa, o almeno gran parte dell’Europa di oggi, teme di essere scavalcata. La grandiosa modernità del nuovo Quartier Generale della NATO a Bruxelles, che ha ospitato il gruppo internazionale di Aspen, non basta a compensare i dubbi su cosa accadrà al vertice del luglio prossimo: l’accordo sulle spese militari è ormai raggiunto sulla carta ma il dilemma è se sarà considerato sufficiente dal presidente americano. Per non soffrire di sindrome da dipendenza, l’Europa deve diventare più autonoma. E più adulta. Qualcosa di simile a una potenza del mondo di domani, non di ieri: il vecchio assetto atlantico, con Trump e dopo di lui, sembra ormai parte della storia.

Perché emerga un nuovo assetto atlantico, perché l’Europa non scivoli verso l’Eurasia ma resti invece occidentale, la sicurezza, la politica estera e la difesa vanno prese sul serio, con i loro costi e con la necessità di raggiungere difficili compromessi politici. Questa è anche la condizione per salvare il legame con gli Stati Uniti. Più semplice da dire che da fare, in una fase in cui il nuovo nazionalismo europeo investe ormai, dopo la periferia, anche il centro dell’Unione.

*Una versione di questo articolo è stata pubblicata su La Stampa del 30 giugno 2018.

 

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