I festeggiamenti per i 25 anni del crollo del Muro di Berlino, il 9 novembre 2014, si erano ancora svolti con un certo entusiasmo. Certo, la frattura tra Est e Ovest della Germania era già un problema di cui discutere, ma permaneva l’ottimismo. La Riunificazione materiale tedesca era chiaramente più lenta del previsto, ma in molti la consideravano in via di completamento. Il trentennale del 9 novembre 2019 giunge invece in una Germania del tutto diversa.
In cinque anni tutto è cambiato, soprattutto per quella Berliner Republik che scommetteva sulla tenuta di un mondo globalizzato incentrato sui principi della democrazia liberale. Nel 2015 è arrivata la Willkommenspolitik, la (temporanea) politica di accoglienza dei migranti da parte di Angela Merkel: un passaggio che ha creato intense e inedite lacerazioni nel corpo sociale tedesco. Nel giugno 2016 la Brexit ha scosso il già traballante equilibrio dell’Unione Europea e messo alla prova la riluttante egemonia della Germania in Europa. Pochi mesi dopo, l’elezione a Washington di Donald Trump ha costretto Berlino ad accelerare la creazione di una strategia nazionale che fosse d’un tratto svincolata dalle tradizionali alleanze e dalla protezione transatlantica.
In questo scenario sempre più complesso sono anche definitivamente emerse le divisioni interne tra Germania occidentale e Germania orientale. Emblema di queste divisioni è stata senza ombra di dubbio l’affermazione della destra identitaria anti-establishment di Alternative für Deutschland nei cosiddetti Neue Bundesländer (i 5 Länder della ex DDR).
Su scala nazionale AfD raccoglie infatti oggi meno del 15% dei voti, ma nella Germania orientale punta quasi al doppio delle preferenze. Nel settembre 2019 AfD ha raccolto il 27,5% nelle elezioni in Sassonia e il 23,5% in Brandeburgo, mentre già nel 2016 aveva conquistato il 24,3% in Sassonia-Anhalt e il 20,5% nel Mecklenburg-Vorpommern. Lo scorso 27 ottobre, nelle elezioni statali in Turingia, AfD è diventata seconda forza con il 23,4% dei voti (nonostante il candidato di AfD fosse Björn Höcke, il leader della corrente völkisch, l’estrema destra del partito). Al primo posto in Turingia, inoltre, si è posizionata la Linke, la forza di sinistra che collabora in coalizione da anni con i partiti di centrosinistra tedeschi ed è nella regione forza tendenzialmente sistemica e moderata, ma che resta comunque espressione della specificità della Germania Est.
A pochi anni dalla sua nascita, AfD arriva in questa parte del Paese a radicarsi come forza territoriale e quasi regionalista, capace di utilizzare come nessun altro attore politico il malcontento della Germania orientale. Malcontento ormai innegabile, come dimostra un report del governo tedesco presentato a fine settembre 2019. Lo studio ha rilevato come il 57% dei tedeschi dei Länder dell’Est si percepisca come “cittadino di seconda classe” e solo il 38% di questi reputi che la Riunificazione sia stato un successo. Tra gli under 40, chi pensa che la Riunificazione sia stata un successo scende addirittura al 20%.
Un processo troppo lento
Nei calcoli della grande Storia, la Riunificazione tedesca verrà forse un giorno considerata operazione tecnicamente riuscita. Ma le dinamiche politiche ed elettorali non sono determinate dalle tempistiche della grande Storia, quanto piuttosto dalla somma delle esperienze individuali e collettive più contingenti. Il fatto che quasi 2 tedeschi dell’Est su 3 si sentano cittadini di serie b dimostra quanto la narrazione della Riunificazione sia oggi in crisi. Lo scontento e la rabbia dell’Est non sono un semplice colpo di coda della famosa Ostalgie per la DDR (la nostalgia romantica per un passato problematico ma in un certo senso più “vero”, e non condizionato dalle asprezze sociali del capitalismo) ma qualcosa di molto più complesso e attuale, in cui i traumi passati si intrecciano con problemi cruciali per il presente e il futuro della Germania contemporanea.
Dal 1990 in poi, la Germania orientale è progredita molto. In ventinove anni sono stati investiti negli stati dell’Est centinaia e centinaia di miliardi (di marchi e di euro). Nel 1991 il PIL pro capite della Germania orientale era il 43% di quello degli stati dell’Ovest, nel 2018 ha superato quota 75%. In un Land come la Sassonia, il valore di beni e servizi prodotti è passato da 36 a 126 miliardi di euro in meno di trent’anni. La disoccupazione è stata a lungo una piaga sociale della ex DDR (ed è stata troppo spesso affrontata unicamente con la distribuzione placativa del welfare), ma è ora scesa dal 18.7% del 2005 al 6,9% del 2018.
Tutti questi progressi innegabili, tuttavia, rimangono insufficienti. Secondo uno studio presentato lo scorso ottobre dal Deutsche Institut für Wirtschaftsforschung (Istituto Tedesco di Ricerca Economica) il ritardo economico dell’Est rispetto all’Ovest potrà durare altri trent’anni. I problemi materiali della Germania orientale restano, soprattutto al di fuori dei grandi centri. Come dimostra un recente report della fondazione Hans-Böckler-Stiftung, il gap di guadagno tra Est e Ovest a parità di mansione e qualifica è ancora oggi del 16,9%. Il trend del gap è in diminuzione, ma molto lentamente. Più in generale, nella Germania orientale persiste un problema di qualità del lavoro e di rapporto tra formazione e retribuzione.
Il risultato scontato di questa dinamica è il persistere di flussi di emigrazione verso ovest, vale a dire un fenomeno che continua fin dal primo giorno della caduta del Muro e che per i Länder orientali ha portato a una perdita di oltre 2 milioni di abitanti in un trentennio – proporzione importante, dato che la Repubblica Democratica Tedesca aveva 16,5 milioni di abitanti nel 1989. Com’è noto, la scarsa attrattività del mercato del lavoro nella Germania dell’Est è ancora legata a doppio filo ai limiti strutturali delle sue infrastrutture e del suo tessuto produttivo, in cui continuano a mancare i grandi player tipici del successo economico internazionale tedesco.
Mentre nei Länder dell’Ovest il 48% di chi ha un impiego lavora in aziende con più di 250 impiegati, negli stati dell’Est questa percentuale scende al 27%. Quello orientale è un mondo produttivo con pochissima proiezione diretta all’export e che vive spesso come periferia della filiera della Germania occidentale. Emblematico è come dalla Germania dell’Est non provenga ancora nessuna delle aziende del segmento DAX30 (i 30 titoli a maggiore capitalizzazione della Borsa di Francoforte), mentre nella top 500 delle aziende tedesche solo 36 hanno sede principale al di là del vecchio confine.
Dilemmi e stratificazioni economiche
Ancora più impressionante è la situazione nei posti di comando: malgrado l’eccezione celebre di Angela Merkel, i cittadini dell’Est sono enormemente sottorappresentati nelle posizioni di guida nel Paese. Nel 2017 uno studio della Deutsche Gesellschaft e.V. dimostrava che nei media più importanti, nelle università, nella pubblica amministrazione, nella politica e nel management la percentuale di tedeschi orientali nelle posizioni di leadership fosse solamente dell’1,7%. Certamente troppo poco per un’area che conta invece quasi il 20% della popolazione tedesca. Come se non bastasse, il deficit di tedeschi orientali nei posti di comando esiste anche negli stessi Länder della ex DDR, ad esempio nel campo della giustizia (solo il 13,3% dei giudici proviene dall’Est) o nelle università (solo il 14% dei rettori proviene dall’Est).
Un’analisi storica della Riunificazione dimostra come la riqualificazione dell’inutilizzabile industria socialista non abbia sortito gli effetti desiderati. Gli stessi investimenti fatti per modernizzare le infrastrutture produttive della ex DDR sono avvenute spesso con modalità che hanno addirittura rallentato l’evoluzione della società della Germania orientale.
Delle vecchie aziende della ex DDR l’80% è stato comprato da tedeschi dell’Ovest, il 15% da stranieri e solo il 5% da tedeschi-orientali. L’acquisto delle infrastrutture produttive socialiste ha poi in molti casi portato al veloce smantellamento delle stesse più che a una reale riconversione e valorizzazione. Di conseguenza, al contrario che in altri paesi dell’ex blocco sovietico dove il passaggio al libero mercato ha fatto emergere nuove élite locali, l’ex DDR non è stata in grado di sviluppare realmente una propria élite socio-economica in qualche modo autonoma e auto-valorizzante. Condizione che ha poi anche fisiologicamente frenato l’affermazione e il riconoscimento di professionisti e civil servants tedesco-orientali nei quadri dirigenti della Germania federale.
Tra le poche eredità industriali della ex DDR, permangono al momento in diverse aree della Germania Est gli stabilimenti dell’estrazione del carbone. Il carbone copre ancora oggi il 40% della produzione energetica tedesca, ma si è già stabilito che la sua industria debba scomparire entro il 2038. Nelle regioni tedesco-orientali in cui si prepara una grande transizione produttiva sta oggi crescendo un’emblematica lacerazione tra chi ha fiducia nelle parole d’ordine della nuova Germania ambientalista e chi invece rifiuta in toto il discorso ecologico, inclusa (se non soprattutto) la sua declinazione liberal-universalista rappresentata dal partito dei Grünen. I Verdi, infatti, in ottima salute a Ovest, a Est continuano a non decollare. Questa tendenza anti-ambientalista è stata da tempo inglobata proprio dalla strategia politica di AfD, che da una parte approfitta di alcuni limiti tattici dell’ecologismo più affrettato e dall’altra giunge a sostenere posizioni negazioniste sull’origine antropica del cambiamento climatico.
Anti-liberalismo e post-liberalismo
La scommessa dei partiti politici che hanno guidato la Germania dal giorno della Riunificazione, CDU e SPD in testa, è stata probabilmente una: nonostante ritardi e imperfezioni, la Riunificazione materiale si sarebbe completata prima dell’emergere di una frattura insanabile tra le due Germanie. La scommessa non ha però tenuto conto di almeno due variabili.
La prima è che negli ultimi anni un’intera generazione che era bambina o adolescente durante la Wende (la “Svolta”) ha iniziato a tirare le somme della propria particolare biografia. Il risultato è che se da una parte c’è chi si sente oggi semplicemente un cittadino della Germania unita, dall’altra si è formato uno zoccolo duro di tedeschi-orientali scontenti che si sentono privati o derubati del diritto all’uguaglianza delle possibilità. Vale a dire defraudati della promessa fatta con il passaggio dal fallimento socialista all’economia sociale di mercato tedesco-occidentale. La seconda variabile è che questo stesso sentimento di astio e ingiustizia percepita potesse compattarsi in occasione di un evento non programmato come la cosiddetta crisi dell’immigrazione. L’afflusso dei rifugiati ha perfezionato la politicizzazione di un identitarismo tedesco-orientale, il cui perno è diventato l’etnicizzazione delle rivendicazioni regionali e territoriali.
Il dibattito sulla Willkommenspolitik in Germania non è stato infatti solo un momento di svolta in cui è emersa la diversa dimestichezza degli stati dell’Est con la complessità del tema immigrazione e con la gestione della xenofobia, ma anche l’occasione per portare a galla e politicizzare tutto il rimosso del trauma della Riunificazione. Da una parte l’aspra ondata anti-immigrazione della Germania Est è nata da paure materiali di competizione nell’accesso al lavoro e allo stato sociale, ma dall’altra è stata anche il momento di definitiva deviazione di una parte dell’ex DDR dal processo di adeguamento a principi e valori della Germania classicamente occidentale.
Il discorso anti-immigrazione tedesco-orientale è diventato velocemente il feticcio trascinante di un rifiuto dell’immigrazione in quanto caposaldo valoriale della Germania liberal-democratica. Un rifiuto come rivendicazione che, quindi, non ha interessato solo le aree più disagiate della ex DDR, ma anche quelle mancate élite locali che si sentono ugualmente svalutate e che, forse addirittura più dei ceti meno abbienti, provano un particolare risentimento nei confronti delle consolidate élite occidentali della Repubblica Federale.
Il fatto che l’Ovest e la narrazione liberale tedesca abbiano poi subito tacciato le posizioni anti-immigrazione tedesco-orientali come democraticamente immature, e denunciato le tendenze totalitarie dei cosiddetti ossis (appellativo rivolto ai tedeschi-orientali che contiene anche un certo tono discriminatorio) ha rafforzato ancora di più la reazione identitaria di parte della Germania dell’Est. Alternative für Deutschland è stata ovviamente il partito che ha saputo approfittare più di tutti della situazione, grazie a un discorso populista-regionalista e sostanzialmente anti-liberale, ma anche contemporaneo e quindi post-liberale.
Una narrazione che corre sulle ambiguità della storia
La narrazione politica di AfD nella Germania dell’est sfrutta oggi i paradigmi del conservatorismo prussiano e sassone, e prova strumentalmente a ignorare e bypassare la questione della colpa del nazionalsocialismo. Ma, soprattutto, la narrazione tedesco-orientale di AfD usa ambiguamente l’eredità della DDR. Da un lato si riallaccia al patriottismo di regime (regime che, malgrado la facciata internazionalista dell’epoca socialista, fu di fatto etnicamente uniforme). Al tempo stesso, AfD cerca di appropriarsi dell’eredità dei movimenti anti-totalitari della Friedliche Revolution, ad esempio con il continuo richiamo a una Wende 2.0 o l’uso dello slogan anti-regime “Wir sind das Volk”-“Noi siamo il popolo”.
Al di là di questo gioco spregiudicato con le varie eredità storiche della Germania orientale, inoltre, la destra populista tedesca ha anche aggiornato alcune posizioni tradizionaliste in senso assolutamente contemporaneo. Un’operazione svolta puntando sulla critica laicista del multiculturalismo, su una spavalda realpolitik post-valoriale, sulla decostruzione interessata delle contraddizioni del pensiero liberal e su alleanze internazionali con altre espressioni del nuovo populismo europeo e americano.
In tal modo è stato più facile raggiungere con un messaggio identitario anche parte dei cittadini più giovani della Germania Est. Giovani che sembrano ora rielaborare il risentimento anti-liberale delle generazioni a loro precedenti in un contesto iper-attuale di identificazione esistenziale tanto neo-conservatrice quanto neo-tribale e, quindi, post-liberale. In ultima analisi, il peggiore errore di valutazione in merito al corrente identitarismo tedesco-orientale sarebbe scambiarlo per un semplice colpo di coda dell’arretratezza di una parte della ex DDR e non, invece, riconoscerlo come espressione specifica di una realtà radicalmente contingente della Germania contemporanea.
Valorizzare un confine invisibile?
Se quasi 2 cittadini su 3 dei Länder dell’Est considerano la Riunificazione fallimentare, ma meno di 1 su 3 vota per AfD, significa che la metà degli scontenti non sceglie comunque per la destra populista. Per i partiti tradizionali la domanda diventa quindi come potersi far carico dell’insoddisfazione di un’ampia parte del corpo sociale e affrontare tempestivamente le problematiche dell’Est in tutte le loro specificità (considerando anche il nuovo contesto di un rallentamento complessivo dell’economia tedesca).
Questo significa non solo affrontare le differenze materiali tra l’Ovest e l’Est più abbandonato, ma anche confrontarsi senza pregiudizi con le differenze socio-culturali cruciali nel determinare una frattura politica sempre più evidente. Le recenti campagne elettorali di successo di Dietmar Woidke (SPD) in Brandeburgo, di Michael Kretschmer (CDU) in Sassonia e di Bodo Ramelow (Linke) in Turingia hanno dimostrato come i partiti più o meno tradizionali abbiano in questi casi saputo riposizionarsi in maniera più convincente nei loro Länder. Tutti e tre i candidati hanno vinto riportando l’interesse territoriale al centro della propria narrazione politica, ponendo agende locali incentrate su interventi irrinunciabili nel campo delle infrastrutture, dell’educazione, della digitalizzazione e dei trasporti. Tutti i candidati hanno inoltre stigmatizzato AfD ma mai i suoi elettori, non riproducendo quei discorsi di colpevolizzazione che hanno inizialmente fatto la fortuna della destra identitaria tra i tedeschi-orientali.
Il riposizionamento delle sezioni locali dei vari partiti in Germania orientale ha ovviamente anche avuto conseguenze più complicate, con allontanamenti dalle rispettive direttive nazionali sia in politica interna sia in occasione di scelte dai chiari risvolti geopolitici.
Emblematico in questo senso è stato l’incontro nel giugno 2019 tra il Ministro Presidente cristiano-democratico della Sassonia Michael Kretschmer e Vladimir Putin. Un incontro durante il quale Kretschmer ha richiesto la fine delle sanzioni contro la Russia (con l’idea di favorire l’economia sassone), ma senza vincolare minimamente la sua proposta alla risoluzione del conflitto ucraino. Una mossa che, per usare un eufemismo, non è piaciuta alla leadership nazionale cristiano-democratica. L’iniziativa di Kretschmer è solo un esempio di quanto la specificità della Germania Est abbia conseguenze importanti anche al di fuori della Berliner Republik.
Se nell’UE esiste ancora un confine tra “Europa occidentale” ed “Europa orientale”, non si trova tra Germania e Polonia o tra Germania e Repubblica Ceca, ma attraversa da qualche parte la Germania Est. A trent’anni dalla caduta del Muro, la domanda è se questo confine invisibile sia destinato a restare una ferita, o possa invece trasformarsi e valorizzarsi in un’area fondamentale del progresso sociale, umano ed economico dell’Europa.