Il mondo del lavoro tra innovazioni e vecchi quesiti irrisolti

Dopo circa un decennio di dibattiti sulla rivoluzione tecnologica, è ormai chiaro che essa non fagociterà il mondo del lavoro ma disegnerà una nuova geografia dei lavori. Restano i dubbi sul bilancio, ovvero sul se i posti di lavoro che scompariranno saranno più o meno numerosi di quelli che nasceranno. Ma, come sostiene anche Marco Annunziata nelle sue analisi recenti, la ricerca di una soluzione a tali dubbi è sorprendentemente sterile.

Piuttosto, infatti, bisogna essere abili nel governare la rivoluzione tecnologica perché essa, tanti o pochi che saranno i lavori che verranno, produca occasioni straordinarie in un mondo piegato in ginocchio da 800 milioni di persone che vivono in povertà.

In questa prospettiva, occorre porsi tre interrogativi: chi e con quali “skill” svolgerà i lavori del futuro; quali garanzie assicurare a costoro; quali passi ha mosso l’Italia.

Will soon robots take care of the elderly?

 

Il primo di essi ci pone dinanzi ad un imbarazzante “chi”. Il nostro mondo invecchia. Secondo un’indagine dell’Organizzazione Mondiale per la Sanità del 2015, nel 2020 la popolazione anziana supererà quella dei bambini sotto i 5 anni; nel 2050, gli over 60 dagli attuali 900 milioni passeranno a quasi 2 miliardi. Inoltre, entro il 2050, gli ottantenni saranno 120 milioni solo in Cina, e 434 milioni nel resto mondo.

E cosi, se non riusciranno programmi mirati di incentivo alla natalità, rischiamo di fronteggiare un mondo futuro fatto di lavori che nessuno potrà svolgere.

E’ emblematico il caso del Giappone, il Paese più longevo al mondo, che già dal 2013 ha stanziato fondi per 24,6 milioni di dollari in favore delle aziende che costruiscono robot in grado di fornire assistenza agli anziani per contravvenire alla penuria di lavoratori che se ne occupano.

Anche l’interrogativo sulle skill può metterci in imbarazzo. Perché, nel rispondere, scopriamo che, in molti casi, la tecnologia non cancella lavori, come vuole la narrazione collettiva, ma piuttosto colma vuoti (come nell’esempio del Giappone) o addrizza storture come nel caso della sostituzione di lavori drammaticamente usuranti e ripetitivi e dunque disumani.

Scopriamo inoltre che di alcuni lavori l’uomo può riappiopparsene quando vuole, di altri è padrone perché in grado di governarli. E così, ad esempio, un anziano preferirà l’empatia, la relazionalità e l’intuizione di un lavoratore in carne ed ossa piuttosto che la cura di un robot. Mentre i lavori in fabbrica che saranno sostituti dalle macchine e quelli che nasceranno in nuovi settori richiederanno all’uomo di governarli con particolari skill. Si tratta del pensiero computazionale, della capacità di modellazione, delle abilità logico-matematiche, della capacità di lavorare in team, del project management, della capacità di progettare un’infrastruttura data center, di realizzare applicazioni per l’intelligenza artificiale, di identificare e configurare le modalità di connessione di sensori, device embedded deviceintelligenti. 

Passando al secondo dei tre iniziali interrogativi – le garanzie per i lavoratori – è doverosa una premessa: il rapporto di forza tra capitale e lavoro e dunque tra chi detiene mezzi di produzione e chi solo forza lavoro che ha dominato i due secoli precedenti è sulla strada del tramonto. E’ così perché ciascuno sarà presto in grado di gestire mezzi di produzione e quindi di assumere le vesti di capitalista. Lo smartphone, ad esempio, è un mezzo di produzione che, se già oggi consente di operare nella galassia della gig economy, consentirà, in futuro, anche grazie ai cyber physical system, la gestione di vere e proprie centrali produttive da remoto. Ed ancora, la stampante 3D, alla portata di molti, è una fabbrica in miniatura.

La risposta all’interrogativo non può allora che essere una sola. Si impone non già una nuova regolazione dei rapporti tra capitale e forza lavoro, nell’ottica di prevenire l’abuso di uno sull’altra, ma quella delle relazione tra nuovi diversi capitalisti per scongiurare il rischio che essa si traduca in una concorrenza spericolata e selvaggia o, in una sola parola, disumana.

Si tratta di garantire, in altri termini, nel segno di un nuovo “umanesimo dei lavoro” quelle che, già in passato, sono state definite le “qualità della vita di lavoro” o meglio il “workplace within”,  il posto di lavoro che è dentro le persone; e dunque la qualità della vita fisica, della vita cognitiva, della vita emotiva, della vita professionale, della vita sociale, della vita riflessiva ed oggi anche della sfera di riservatezza in rete. In tale prospettiva, l’International Labour Organitation (ILO) ha costruito la nozione di “decent work.

In tale contesto è possibile rispondere all’ultimo interrogativo – relativo specificamente al caso italiano. L’Italia muove con difficoltà i suoi passi. E’ infatti il secondo Paese più vecchio del mondo dopo il Giappone, salvo alcune eccezioni non garantisce la formazione rispetto alle skill necessarie per il futuro, ripiega nella regolazione dei rapporti di lavoro del passato (come dimostra il recente maquillage legislativo dei contratti a termine e di somministrazione), e apre la strada al reddito minimo garantito che non garantisce ma deprime le qualità delle vita di lavoro.

Se è vero tutto questo, è allora vero che, in definitiva, la rivoluzione tecnologica impone a tutti uno sforzo di pragmatismo nell’ottica della costruzione del bene comune e ai governi scelte responsabili di lungo periodo, nell’ottica della costruzione di un modello di società compatibile con le innovazioni.

Si tratta, in fondo, di “fare in modo che il lavoro crei altro lavoro, la responsabilità crei altra responsabilità, la speranza crei altra speranza”. Come ha affermato Papa Francesco in una recente intervista.

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