E‘ noto. Il mercato del lavoro italiano non brilla per competenze digitali. Nella classifica del Desi (l’Indice di digitalizzazione dell’economia e della società adottato dalla Commissione europea), che misura il grado di digitalizzazione in Europa, nel 2022, l’Italia si posiziona soltanto alla venticinquesima posizione sulle ventisette disponibili sotto la voce “capitale umano”. Un dato che fa pendant con la recente ricerca YouTrend, secondo cui il 54% degli italiani è analfabeta digitale.
Si tratta di un bias pericoloso. La digitalizzazione, infatti, nelle forme dell’intelligenza artificiale, delle applicazioni derivate come la ChatGPT o del metaverso ma anche della remotizzazione dei servizi e delle attività di lavoro vive, su scala globale, una forte ascesa. Ad intuirlo è stata la Cina sin dal 2015, quando ha lanciato un programma di upskilling e reskilling di interesse strategico nazionale: “Made in China 2025”.
Non ci sono dubbi. L’Italia ha bisogno di investimenti in formazione digitale. E allora, le tre domande a cui ci proponiamo di rispondere sono: a beneficio di quale fetta di lavoratori? In quale misura? E quali compiti deve, di conseguenza, assolvere il legislatore?
Andiamo con ordine. Il fiume della digitalizzazione ha scavato un argine con due rive. Da un lato, la GenZ e i Millennial, con innata la capacità di governare processi digitali; dall’altro, la popolazione più anziana, per cui invece questa capacità registra ancora perfomance molto basse. Essa costituisce una percentuale molto alta della forza attiva ed è destinata a crescere. Come noto, infatti, parliamo del Paese più anziano del mondo dopo il Giappone.
L’analfabetismo digitale, legato all’età, è anche uno dei principali fattori discriminanti. Ad esserne vittima, secondo una recente ricerca di Page Group, è il 34% di chi ha subito almeno una discriminazione nel corso della propria vita lavorativa.
La situazione, nel privato e nel pubblico, dove però ad essere irrisolto è anche uno strutturale gap tecnologico, si assomiglia. Sono i lavoratori adulti i primi a dover ricevere una formazione digitale: è questa, dunque, la risposta al primo interrogativo.
Secondo: in quale misura? A definire il calcolo sono le previsioni di crescita dei processi di digitalizzazione. I dati sembrano incoraggianti. Secondo l’Organizzazione Internazionale del Lavoro, “Generative AI and Jobs: un’analisi globale dei potenziali effetti sulla quantità e qualità del lavoro” (qui), nei Paesi ad alto reddito l’automazione riguarderà il 5,5% dell’occupazione mentre, solo in quelli a basso reddito, la percentuale precipita allo 0,4%. A migliorare sarà principalmente la qualità del lavoro.
In Italia, il ricorso allo smart working è diventato strutturale per uno o più giorni alla settimana. Basti guardare ad esperienze virtuose come quella di Tim, che ha riconosciuto ai white collars la possibilità di lavorare da remoto tutti i venerdì del mese. Secondo l’indagine di Randstad, già nel 2022, si contavano almeno 2,9 milioni di smart workers.
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Una quota sicuramente inferiore a quella registrata durante la pandemia, quando il ricorso allo smart working è stato indiscriminato, che prova però un dato: esso si è trasformato in un’efficace risposta all’esigenza di conciliazione dei tempi di vita con quelli di lavoro. I principali bisogni che è in grado di assecondare sono di cura ed assistenza in favore dei figli o di persone con disabilità.
“Sono tre i compiti che spettano al legislatore” è, infine, la risposta alla terza domanda.
Anzitutto, quello di definire, sul criterio dell’analfabetismo digitale, una nuova platea di lavoratori svantaggiati. La loro assunzione o formazione, come già oggi accade per i lavoratori più fragili o disoccupati e inoccupati da lungo periodo, potrebbe infatti generare per legge alcuni benefici per le imprese. Il secondo compito è quello di declinare le differenti tipologie di agevolazioni destinate alle aziende che investono in formazione digitale. Ad esempio: finanziamenti diretti e a fondo perduto, come accade oggi per le start-up; crediti di imposta, come quelli che prevedeva il famoso piano Industry 4.0; decontribuzione previdenziale, al pari di quella applicata all’assunzione di apprendisti; oppure premialità in conseguenza di prassi virtuose, come quelle che già contempla l’Uni Pdr 125:2022 in favore delle organizzazioni certificate per i risultati conseguiti sul terreno della parità di genere. In questa prospettiva, sul modello (oramai rodato) del “Fondo nuove competenze”, potrebbe vedere la luce un apposito “Fondo per le competenze digitali.”
Altre importanti risorse devono rimanere, invece, appannaggio della formazione di tipo tradizionale. Essa, infatti, è ancora necessaria per tutte le occupazioni, come quelle artigiane o a specializzazione tecnica, che resistono al vento della digitalizzazione. Secondo l’indagine di Excelsior, richiamata nel report di Assolombarda del febbraio 2023 in Lombardia, un alto fabbisogno ancora riguarda i mestieri classici. A titolo esemplificativo: manager e specialisti (48,4%) ma anche operai specializzati (50,1%).
Digitalizzazione e tradizionale mondo del lavoro, in altre parole, percorrono strade parallele. Il terzo e più importante compito del legislatore è quello di definire al tavolo con imprese e sindacati una serie di pratiche capaci di garantire il successo della formazione digitale. Tra le possibili, il reverse learning, la c.d. formazione al contrario, di cui i lavoratori più giovani si fanno carico in favore di quelli più anziani. Tale soluzione ha anche l’effetto di creare engagement verso la GenZ e i Millennial e di contrastare, per conseguenza, la tendenza alle dimissioni silenziose (il cosiddetto quiet quitting) che li vede attualmente protagonisti.
Il reverse learning postula il ribaltamento della tradizionale gerarchia lavorativa secondo cui sono i lavoratori con una lunga esperienza in azienda ad aver il compito di istruire quelli più giovani. Un esempio plastico della potenza disruptive della rivoluzione digitale.
Anche il discernimento antropologico potrebbe rivelarsi una pratica utile. Esso avrebbe l’obiettivo di formare i lavoratori su come preservare l’aspetto umano, e dunque empatia, creatività, flessibilità, relazionalità, nel rapporto con il digitale. La comunicazione e la costruzione di legami fiduciari sono gli elementi più importanti di questo tipo di discernimento.
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Lavoratori più consapevoli corrono, infatti, meno rischi: di alienazione a causa della l’intelligenza artificiale e dunque di avvertirsi oggetto e non soggetto delle dinamiche lavorative; di isolamento nello smart working, dove l’ininterrotta connessione al monitor può gettarli in una situazione di estrema solitudine; di stress psico-fisico in un possibile metaverso a causa della loro trasfigurazione in avatar.
In definitiva, la formazione digitale mette a segno tre importanti cambiamenti: rilancia la competitività del Paese su un terreno accidentato, responsabilizza i più giovani nel riscoprirne la centralità, riscopre la centralità dell’umano.
Il suo successo dipende dalla capacità del legislatore di governarne le dinamiche, a riparo dal facile scetticismo verso il cambiamento. Del resto, come ci ricorda Nazim Hikmet nei suoi versi: “il più bello dei mari è quello che non navigammo. Il più bello dei nostri figli non è ancora cresciuto. I più belli dei nostri giorni non li abbiamo ancora vissuti”.