Siamo a dieci anni da quella stagione di rivolte che, partita da una sconosciuta cittadina della Tunisia centrale, interessò tutti i Paesi arabi, dal Maghreb al Golfo, passando per la Libia, l’Egitto e gli Stati levantini. La stampa internazionale coniò l’espressione “Primavere arabe”, caricandola di attese e speranze di democratizzazione per Paesi oppressi da decenni di regimi autoritari.
Gli Stati europei, in particolare quelli mediterranei, guardarono con molta attenzione verso società civili che, nonostante la repressione politica, erano riuscite a dare vita a un fermento sotterraneo capace di mostrare tutta la sua forza. Sembrava che il mondo arabo fosse pronto a uscire da un torpore atavico, sotto la spinta delle generazioni più giovani, per incamminarsi verso un futuro di riscatto e di libertà.
Grandi speranze
A dieci anni da quegli eventi, l’opinione pubblica europea, con poche eccezioni, ha perso nuovamente l’interesse per questa parte del suo “estero vicino”. La pandemia di Covid-19 ha contribuito molto a distogliere l’attenzione di cittadini e governi da quanto accade in Nord Africa e in Medio Oriente. Ma la ragione principale di tale disinteresse, precedente l’emergenza sanitaria, è legata a una considerazione superficiale del mondo arabo. Quest’ultimo è percepito come un blocco monolitico, senza cogliere le infinite sfumature e le contraddizioni presenti al suo interno, così come i cambiamenti ancora in corso, che le Primavere arabe hanno innescato.
Era il 17 dicembre 2010 quando Muhammad Bouazizi, un venditore ambulante di Sidi Bouzid, nella Tunisia profonda, si diede fuoco come gesto estremo di protesta contro i soprusi della polizia, che aveva sequestrato la sua merce. Quel gesto estremo avrebbe dato avvio a proteste popolari, destinate a trasformarsi da manifestazioni per chiedere condizioni di vita migliori a una contestazione aperta del presidente Zine El Abdine Ben Ali, in carica dal 1987. In meno di un mese, un regime più che ventennale crollava, travolto dalla rabbia accumulata in anni di corruzione, sottosviluppo e repressione politica.
Le rivolte nel più piccolo dei Paesi nordafricani, che la narrativa giornalistica descrisse come “Rivoluzione dei gelsomini”, incoraggiarono le masse oppresse e impoverite di altri Stati arabi ad avanzare rivendicazioni simili a quelle dei tunisini. I canali satellitari panarabi e i social network assicurarono una copertura minuziosa degli avvenimenti e facilitarono la comunicazione e il coordinamento nazionale di manifestazioni altrimenti isolate. In poche settimane, i cittadini scesero in strada in tutti gli Stati arabi, anche se l’intensità e la portata delle rivendicazioni variavano a seconda delle peculiarità di ogni Paese e del contesto politico, economico e sociale nel quale avevano luogo.
Restaurazioni, repressioni, terrorismo
Le conseguenze di quei movimenti di protesta sono state molto diverse. Nel caso della Libia, della Siria e dello Yemen, le rivolte sono degenerate in conflitti civili ancora in corso, che hanno visto anche il coinvolgimento di potenze straniere, spinte a intervenire per affermare la propria presenza o l’egemonia regionale ovvero per tutelare interessi economici rilevanti.
Sono proprio le notizie di morte e devastazione provenienti da questi Paesi ad alimentare la percezione che le Primavere, tanto celebrate all’inizio del 2011, abbiano da tempo lasciato il posto a Inverni lunghi e freddi, capaci di far rimpiangere la stabilità che i regimi liberticidi precedenti erano riusciti ad assicurare. In altre realtà, come l’Egitto e il Bahrain, il ritorno a sistemi politici simili o identici a quelli di un tempo ha rafforzato l’immagine di un mondo arabo incompatibile con la democrazia e con apparati statuali laici di modello occidentale, in preda al caos oppure all’autoritarismo dorato delle monarchie del Golfo.
A tutto questo si aggiunge il radicalismo islamico. Tale fenomeno assume forme diverse a seconda dei contesti in cui opera e della forza di cui le istituzioni locali dispongono per contrastarlo. Se nelle aree desertiche della Libia e dell’Algeria meridionale, ai confini con la regione del Sahel, Al Qaida nel Maghreb Islamico (AQMI) è interessata alla gestione dei traffici illegali, a cavallo tra Siria e Iraq ha assunto la forma di un’organizzazione arrivata a controllare parti del territorio con la denominazione di “Stato islamico” (ISIS).
La capacità di alcuni gruppi radicali di pianificare e compiere attentati anche al di fuori dei Paesi in cui sono più attivi nonché di costituire un richiamo ideologico per tanti giovani delle classi sociali più svantaggiate delle periferie europee ha acuito la percezione di questa parte del pianeta come fucina di minacce – fornendo nel contempo ai regimi al potere un formidabile alibi per non introdurre veri cambiamenti, e di fatto una ragion d’essere sul piano internazionale.
L’immagine che la cronaca quotidiana dà del mondo arabo a dieci anni dalle Primavere è dunque quella di una grande occasione sprecata. Tutte le speranze di quelle settimane di inizio 2011 sono svanite sotto la cappa pesante della restaurazione autoritaria, tra le macerie fisiche e morali della guerra civile, o nel silenzio di società tanto opulente quanto chiuse.
Complessità oltre la superficie
I mezzi di informazione occidentali sono inclini a favorire un’immagine parziale del Nord Africa e del Medio Oriente, facendo leva sulle paure profonde delle persone e incoraggiando l’equazione sbagliata tra Paesi arabi e minacce, dal terrorismo ai flussi migratori incontrollati, dall’instabilità politica al fondamentalismo religioso. In realtà, la regione presenta un affresco che è divenuto ancora più articolato nell’ultimo decennio.
Partendo dal Maghreb, parola che nella lingua del Profeta designa il posto in cui tramonta il sole nonché la preghiera islamica del tramonto e il Regno del Marocco, già emerge una complessità percepita solo parzialmente in Europa. La Tunisia è l’unico Paese nordafricano ad aver imboccato la strada della transizione democratica. Sebbene pesino le fragilità del sistema politico-istituzionale e le tensioni sociali derivanti dalla stagnazione economica e dall’arretratezza dei governatorati lontani dalla costa mediterranea, Tunisi procede faticosamente in direzione di un sistema rappresentativo e rispettoso dei diritti civili.
Lo stesso non è accaduto nella vicina Algeria. L’antica colonia francese non è stata attraversata da proteste su larga scala, ma da circa due anni è attivo un movimento, hirak in arabo, partito dal basso e privo di un’organizzazione strutturata, che rivendica maggiori libertà e la fine del controllo capillare delle forze armate sull’architettura dello Stato. Questo è incapace di assicurare una gestione efficiente e trasparente della macchina amministrativa e di garantire una distribuzione equa dei proventi generati dallo sfruttamento delle ampie riserve di gas e petrolio del Paese.
Sebbene le mouvement non abbia mai assunto caratteristiche violente, è riuscito a ottenere che il presidente Abdelaziz Bouteflika (al potere dal 1999) non fosse ricandidato alle elezioni presidenziali, tenutesi nel dicembre del 2019: è già un passo avanti. Il nuovo capo dello Stato, Abdelmajid Tebboune è comunque espressione della classe politica che domina il Paese dalla fine della guerra civile degli anni Novanta del secolo scorso. La paura di ritornare alla tragedia di quel decennio e la repressione governativa hanno fatto in modo che la società algerina aborrisse qualsiasi suggestione rivoluzionaria implicante il rischio di una degenerazione violenta, anche a costo di scalfire solamente la solidità dell’apparato politico-militare che domina il Paese.
Ancora diverso è il caso del Marocco, dove il re Muhammad VI è riuscito a sfruttare la sacralità del suo ruolo di comandante dei credenti, derivante dalla discendenza dal Profeta rivendicata dalla sua dinastia, per contenere le manifestazioni popolari del 2011. Allo stesso tempo, il sovrano ha compreso che alcune aperture sul piano politico, tese a favorire la partecipazione dei cittadini alla vita dello Stato, soprattutto a livello locale, potevano essere coniugate alla crescita economica delle regioni costiere e dei principali centri urbani per evitare le proteste e garantire la stabilità.
Un fenomeno simile ha avuto luogo in Giordania, dove il re Abdallah II, che pure vanta una discendenza dal fondatore dell’Islam, ha favorito una serie di riforme politiche e amministrative, anche se la monarchia levantina non ha potuto contare sull’aiuto di un’economia diversificata e solida come quella marocchina per cementare il patto sociale su cui si fonda la stabilità del Paese.
L’influenza di una narrazione stereotipata
Già da questa brevissima descrizione emerge come il mondo arabo sia tutt’altro che monolitico. Purtroppo, la cronaca quotidiana sul Nord Africa e sul Medio Oriente è dominata dai fatti di sangue che tormentano la Libia, la Siria e lo Yemen. Tali Paesi, pur presentando differenze profonde dal punto di vista politico, economico e sociale, sono accomunati dalla degenerazione dei movimenti di protesta del decennio scorso in conflitti civili ancora in corso, che traggono linfa vitale dalla frammentazione etnica di questi tre Stati. I regimi di Gheddafi, della famiglia Assad e di Saleh erano riusciti a soffocare sotto il peso della repressione poliziesca e dei legami clientelari rivalità antiche, esplose quando le crepe apertesi negli apparati di potere hanno fatto crollare l’intero edificio. È questo scenario che generalmente emerge nella mente di chi pensa al mondo arabo.
Al massimo, l’immagine dei profughi siriani in Libano e in Giordania oppure dei carri armati delle tribù di Tripolitania e Cirenaica che si scontrano sotto le insegne del generale Haftar e del Governo di Tripoli sono sostituite dalle notizie sugli arresti dei dissidenti egiziani e di chi si batte per i diritti civili e politici nel Paese delle piramidi, tornato alla normalità autoritaria con il regime nasseriano di Abdel Fattah Al Sisi, dopo la breve stagione dell’Islam politico del presidente Morsi tra il 2012 e il 2013. Oppure emerge la narrazione stereotipata delle ricchissime Case regnanti del Golfo, in grado di ottenere l’assenso dei propri sudditi alla mancanza di diritti politici, comprandolo grazie ai miliardi di dollari assicurati dalle esportazioni di idrocarburi.
Nell’ultimo decennio la percezione che i governi e l’opinione pubblica dei Paesi europei hanno del mondo arabo non è cambiata molto rispetto a parametri conoscitivi tradizionali. Questi mescolano un certo gusto per l’esotismo, nella declinazione “orientalista” analizzata da Edward Said negli anni Settanta del secolo scorso, con una certa dose di sottile razzismo. A tale approccio si affiancano gli stereotipi antichi di un blocco monolitico di società e di Paesi, accomunati dalla lingua araba e dalla religione islamica, senza considerare le minoranze e il fatto che finanche sul piano linguistico esistono differenze rilevanti pure tra Stati confinanti.
Le Primavere arabe hanno allora rappresentato un’occasione mancata in un senso diverso: occasione per l’Europa di interessarsi finalmente al Nord Africa e al Medio Oriente e di percepirne la complessità, al di là delle generalizzazioni. Certo, molte speranze di dieci anni fa sono state deluse, ma la sconfitta più grande è di continuare a parlare di “mondo arabo” e non di tessere diverse di un mosaico molto più ampio.