La Turchia di oggi gode di grande prestigio grazie alla natura peculiare del partito al governo e al successo della sua economia; tuttavia, le solide radici laiche del paese non sono facilmente replicabili nel mondo arabo, mentre alla vitalità economica si affiancano tendenze repressive sul piano politico e dei diritti civili.
Nel corso di un incontro del World Economic Forum tenutosi lo scorso giugno ad Istanbul il premier turco Recep Erdoğan ha sottolineato i grandi traguardi raggiunti dal suo paese nell’ultima decade: una crescita media di 5.3 punti percentuali a partire dal 2002, un prodotto interno lordo più che triplicato, investimenti provenienti dall’estero aumentati di 16 volte. L’impressionante sequela di numeri è stata accompagnata dall’organizzazione di un apposito panel intitolato “La Turchia come fonte di ispirazione”, con un chiaro riferimento all’influenza che il “modello turco” – in primis il suo “modello economico”, basato su crescita e stabilità – esercita sui paesi protagonisti delle Primavere arabe. Una constatazione che è condivisa anche da molti osservatori esterni: “La Turchia – aveva dichiarato ad esempio pochi giorni prima al quotidiano turco Zaman Ryan Crocker, ambasciatore americano in Afghanistan – “è sia un grande modello [per le Primavere arabe] che un importante partner per gli Stati Uniti e il resto della NATO”.
La diffusa convinzione secondo la quale la Turchia rappresenti un modello e una “fonte di ispirazione” per i protagonisti delle Primavere arabe è però riconducibile a due malintesi di base, di segno quasi opposto. In primis c’è una sottovalutazione del fattore religioso: la Turchia resta un paese laico, la cui legge si rifà al diritto romano e non alla shari’a. Ciò rimane vero anche a dispetto di alcune prese di posizione del premier Erdoğan e della progressiva ascesa di movimenti, Gülen in primis, di dubbia collocazione. La sua indole secolare ha infatti radici profonde, rintracciabili in un passato molto antecedente a quello del “padre della patria” Kemal Atatürk, il quale, come ha confermato l’ultimo libro di Şükrü Hanioğlu (Atatürk: An Intellectual Biography, Princeton UP, 2011), non ha rappresentato un elemento di rottura con la tradizione tardo-ottomana, bensì per molti aspetti la sua continuazione.
Per contro, il governo al potere in Egitto e la maggioranza delle forze di opposizione presenti in paesi come la Siria e lo Yemen si ispirano ai Fratelli musulmani: si tratta di un movimento che, come di recente ha opportunamente ricordato il presidente del Foreign Policy Institute di Ankara, Seyfi Taşhan, guarda alla legge islamica come fonte primaria del diritto.
La seconda incomprensione riguada il rapporto tra successo economico (innegabile) ed evoluzione del sistema democratico (assai più incerta al punto attuale). Le riforme implementate da Ankara a partire dalla crisi del 2000 – su forte impulso del Fondo monetario internazionale – hanno creato le condizioni per una crescita economica che ha pochi precedenti. Inoltre l’ascesa al potere nel 2002 del Partito per la Giustizia e lo Sviluppo (AKP) del premier Erdoğan, seguita dalla sua riconferma alle elezioni del 2007 e del 2011, hanno permesso di raggiungere una funzionale stabilità politica. Tuttavia ciò ha generato l’errata convinzione secondo cui lo sviluppo economico e la stabilità governativa fossero di per sé sufficienti a creare una società democratica. Solo fino a quando la Turchia ha mantenuto forti relazioni con l’UE si è assistito a politiche volte a riformare il paese in chiave democratica; non pochi si sono interrogati se tale spinta riformatrice fosse da ascrivere esclusivamente a meri calcoli politici.
Per molti aspetti oggi più che mai Ankara è lontana dal poter rappresentare un esempio simbolico per colmare la sete di giustizia e democrazia che ha sotteso l’avvio delle Primavere arabe. Lo stesso paese che tra il 2002 e il 2007 – l’anno in cui venne assassinato ad Istanbul il giornalista turco-armeno Hrant Dink – si è impegnato a fondo per entrare nell’UE, allentando tra l’altro le pressioni sulla minoranza curda e riformando il proprio sistema legale, ha da tempo adottato ciò che Dani Rodrik ha definito sul The Wall Street Journal una politica di “deception, dirty tricks, fear, and intimidation that couldn’t present a sharper contrast to its rhetoric on democracy”.
In questo senso la Turchia che emerge dal rapporto annuale di Amnesty International del 2012 evidenza chiaramente dei trend preoccupanti: “Promised constitutional and other legal reforms did not occur. Instead, the right to freedom of expression was threatened and protesters faced increased police violence”. Le valutazioni di Amnesty sono peraltro in linea con i dati forniti da Reporters Without Borders, che nella sua ultima classifica dedicata alla libertà d’informazione nel mondo ha posto la Tuchia alla posizione numero 148, subito dopo il Malawi. Con i suoi 15mila siti bloccati (come riporta engelliweb.com, portale impegnato a monitorare le pagine web censurate), i suoi oltre cento giornalisti detenuti (più della metà di etnia curda) e con circa 13mila persone giudicate in accordo con una legislazione anti-terrorismo non garantista, la Turchia si è progressivamente trasformata in una sorta di “democrazia repressiva”.
Parlando con i giornalisti, gli intellettuali e gli attivisti locali si avverte il clima da “caccia alle streghe” che sta sempre più avvolgendo il paese: “Provi a pubblicare un libro sulla questione armena – spiega il titolare di una nota casa editrice di Istanbul – e vedrà cosa succede a chi osa sfidare i nostri tabù”. Quasi tutti sono pronti, se non desiderosi, di spiegare la quotidianità che stanno affrontando. In pochi, tuttavia, sono disposti a farsi identificare. Temono di venire boicottati o di essere licenziati, di subire intimidazioni o processi pretestuosi come accaduto a Nedim Şener, Ahmet Şik, Nuray Mert e agli altri protagonisti della TV e della carta stampata che hanno provato a denunciare l’attuale deriva.
Uno dei rilievi più frequenti punta il dito contro gli Stati Uniti e le potenze del vecchio continente. È infatti diffusa la convinzione che tanto i primi quanto le seconde preferiscano adottare un atteggiamento “attendista” in rapporto all’attuale situazione, riproponendo un leitmotif ben collaudato già ai tempi della guerra fredda: “Anche a quei tempi – spiega un giornalista di un quotidiano di Ankara – la Turchia era poco più di una democrazia nominale e anche allora le potenze occidentali preferivano affidarsi a un alleato affidabile piuttosto che appoggiare lo sviluppo di una democrazia compiuta, per molti versi incontrollabile”.
Sarebbe tuttavia semplicistico individuare le cause dell’attuale fase di regressione democratica alla sola influenza dei grandi player occidentali. Le responsabilità sono in gran parte interne. Solo quando l’establishment al potere ritroverà la volontà e la capacità di riformarsi, divenendo quindi più flessibile e tollerante nei riguardi delle sue minoranze (assiro-aramei e curdi in primis) e verso ogni forma di dissenso, assisteremo alla rimozione di quella barriera psicologica che fino ad oggi ha impedito un completo sviluppo del “soft power” turco in Medio Oriente. La crescita economica non è di per sé sufficiente ad assicurare la libertà intellettuale, l’equità, il progresso e la mobilità sociale verso l’alto: tutti fattori indispensabili per qualsiasi paese che aspiri a rappresentare un modello regionale.