Il mito della sovranità e l’autonomia strategica: la trappola in cui è caduto Macron – e la UE

 Secondo il Presidente francese, Emmanuel Macron, non è interesse europeo farsi trascinare da Washington in un confronto con la Repubblica Popolare Cinese su Taiwan. Con tempistica perfetta (massicce esercitazioni militari cinesi attorno all’isola contesa), si è così fatto un regalo di Pasqua al Presidente Xi Jinping, forse perfino inaspettato.

Emmanuel Macron a Pechino con Xi Jinping

 

Le dichiarazioni rilasciate nei primi giorni di aprile da Emmanuel Macron a margine del suo viaggio cinese (e forse anche direttamente a Xi Jinping) hanno lasciato molti osservatori interdetti, ma non sono affatto un fulmine a ciel sereno. Al contrario, vengono da lontano, e i segnali erano ben visibili da diversi anni.

In realtà, siamo di fronte a un effetto collaterale dell’intossicazione da sovranità che pare aver colpito molti leader europei, e non soltanto il francese Macron. Si può ricordare che la Francia ha sempre avuto un debole per la “souveraineté” – soprattutto per la sua – ma il problema è più ampio e profondo. Brexit docet: è ancora viva la memoria del grande slogan “take back control”, che si è poi rivelato il primo passo verso una scelta autolesionista oltre che dannosa per la UE.

Perfino la Commissione, da Bruxelles, parla sempre più spesso di “sovranità tecnologica” e di “sovranità economica” – quasi come se fossimo a un festival dedicato a Max Weber. Va poi notato che, a livello comunitario, la declinazione economicista dell’ambizione “sovrana” maschera, nemmeno troppo in profondità, un classico atteggiamento mercantilista. E’ un tentativo del tutto legittimo, sia chiaro, in un mondo complicato e iper-competitivo, ma forse andrebbe reso più esplicito nelle sue implicazioni: in particolare, quando si dichiara di voler ridurre la dipendenza dall’esterno, possiamo anche chiamarlo “reshoring”, ma di fatto nelle capitali europee intendiamo soprattutto “campioni nazionali” e imprese di Stato; dunque, è tutto da dimostrare che l’accorciamento delle famigerate catene del valore sia compatibile con l’integrazione europea e con il mercato unico. Insomma, mentre a Parigi Macron ha le idee chiare su dove si collochi la sovranità (all’Eliseo, cui viene conferita ogni cinque anni dall’elettorato), a Bruxelles hanno forse frainteso quello che sta accadendo da qualche anno.

 

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Il fenomeno in corso è un precipitoso ritorno delle leadership verso la sovranità nazionale, perfino quando non ha molto senso fare questa corsa all’indietro. In sostanza, evocare la sovranità come un mantra equivale infatti a esorcizzare l’interdipendenza, che però non scompare magicamente. Si può ad esempio sostenere, in linea teorica, che il debito pubblico è “sovrano”; ma, se i mercati (prima ancora che gli altri governi) si convincono che non sarà ripagato, allora le conseguenze economiche per il Paese indebitato saranno assai concrete, e non basterà alcuna dichiarazione di prerogative sovrane a fare da scudo.

La peculiarità del crescente interesse europeo per gli attributi “sovrani” è che si tende a non fare distinzione tra alleati, partner affidabili, partner meno affidabili, controparti problematiche (Stati semi-falliti, ad esempio), e veri avversari strategici. Nel festival della sovranità, una sorta di frenesia finisce per annebbiare la vista, e magari alcuni leader piuttosto esperti arrivano perfino a dichiarare al governo di Pechino la loro frustrazione per uno storico rapporto di alleanza che si ritiene troppo sbilanciato a favore di Washington. In altre parole, alcuni europei – anche a Berlino – desiderano a volte liberarsi del giogo americano per poter finalmente trattare da pari a pari con la Cina, dopo aver puntato per circa vent’anni a creare un rapporto energetico simbiotico con la Federazione Russa. E’ una “grand strategy” interessante, che certo però non rinsalda le relazioni di fiducia con gli USA – ai quali intanto si chiede ovviamente di continuare a difenderci, mentre ci organizziamo per diventare autonomi.

Proprio in chiave di sicurezza, è degno di nota il comunicato congiunto sino-francese siglato il 7 aprile su una sorta di dialogo militare a tutto campo: eppure, non è certo la Francia a poter influire, da sola, sulle scelte globali di Pechino. I punti del comunicato che sono dedicati specificamente alla guerra in Ucraina sono poi in diretta contraddizione con gli sforzi collettivi della UE per assicurare al Paese un futuro più libero, sicuro e democratico. Non sarà infatti Parigi a poter dare garanzie serie a Kyiv, senza il supporto della NATO e senza la forza di attrazione della UE. Dunque, è un caso che si può definire di astigmatismo sovrano, per cui Macron non sembra aver messo a fuoco la realtà e ha comunque voluto mostrare al mondo di essere una controparte degna di dialogare con il leader unico del Partito unico cinese.

 

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Non è certo accidentale, allora, che tra i maggiori entusiasti della (presunta) autonomia strategica europea vi sia proprio la Cina di Xi Jinping, la quale conta non solo sul possibile sganciamento della UE dagli Stati Uniti, ma anche sulla quasi certa frammentazione del “fronte europeo” a seguito di quello sganciamento; nell’ottica di Pechino, una cosa porta con sé l’altra.

Si è così innescato un doppio cortocircuito: prima tra la UE e gli USA; poi all’interno della UE tra i suoi Paesi membri (che fanno a gara per dimostrare chi è più “sovrano” degli altri). Lo spettacolo è davvero curioso, se osservato dall’esterno – tanto da Pechino e Mosca, quanto da Washington. E dovrebbe ormai essere preoccupante soprattutto per gli europei stessi.

E’ stato giustamente notato che il mondo è diventato sempre più competitivo in chiave tecnologica e generalmente economica; vero, ma è anche più interdipendente rispetto al recente passato, e ciò rende difficile il ricorso diretto alla cara vecchia categoria della sovranità. Si rischia di diventare molto sovrani e molto poveri, o molto isolati, o infine molto dipendenti dagli avversari (invece che dagli alleati). Sembra davvero un caso in cui il rimedio è peggiore del male.

Del resto, già nel periodo 2017-2020 l’Occidente ha sperimentato cosa vuol dire una leadership americana tutta focalizzata sulla propria sovranità (con tanto di America First e “diplomazia transattiva”); lo hanno sperimentato anzi per primi gli stessi Stati Uniti, con lo strascico di polarizzazione politica interna ancora peggiore di quella, già elevata, che portò Donald Trump alla Casa Bianca.

Anche alla luce di questa recentissima fase politica, lascia perplessi la ritrovata popolarità del “sovrano” proprio all’interno della UE, che fino a pochi anni fa andava fiera del suo tentativo di superamento del livello nazionale per diluire e semmai ridefinire radicalmente il concetto di “attore” internazionale autonomo e costruttivo – prima e meglio che “sovrano”.

Almeno due casi macroscopici dovrebbero poi consigliare grande prudenza: la Russia di Vladimir Putin, che si è autodefinita “democrazia sovrana”, quasi fosse un modello innovativo da offrire al mondo; e la Repubblica Popolare Cinese, che intende la sovranità anzitutto come riconquista di Taiwan e poi come ampliamento della propria già notevole estensione territoriale a comprendere anche varie isole contese nel Mar Cinese Meridionale. C’è da sperare che nessuno in Europa prenda a riferimento questi fulgidi esempi di sistema politico e di proiezione internazionale.

E’ comunque difficile negare, a questo punto, che esista uno specifico problema francese per gli europei: il Presidente Macron ha praticamente rivendicato un ruolo nazionale perfino negli equilibri militari del quadrante marittimo dell’Asia orientale – il che ricorda molto le ambizioni in stile “Global Britannia” dei Brexiteers. Il futuro non sarà clemente, se il precedente di Londra può essere di monito a Parigi. Intanto, però, il danno è fatto per l’Europa e per la coesione transatlantica.

Un danno molto sovrano.

 

 

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