Donald Trump è in rimonta e secondo alcuni sondaggi appaia o perfino supera Hillary Clinton nel voto nazionale. Detto che questo tipo di sondaggi ha scarsa valenza poiché l’elezione presidenziale si decide nel computo dei Grandi Elettori – eletti stato per stato, dunque non proporzionali al voto nazionale – la tendenza favorevole a Trump è un segno del progressivo ricompattamento del Partito Repubblicano e della ormai sostanziale accettazione del miliardario newyorchese come candidato presidenziale.
Con Clinton frenata dal duello con Bernie Sanders, Trump e i Repubblicani godono di circa due mesi di vantaggio sugli avversari. Si tratta di un inatteso e cruciale arco temporale, nel quale Trump deve cercare di convincere tutte quelle componenti che lo hanno sempre avversato.
Dopo che per mesi l’establishment del partito ha fatto di tutto per boicottarlo, arrivando a paventare lo scenario di una brokered convention e di un “tutti contro Trump”, le vittorie decisive nelle primarie di aprile e l’improvviso e concomitante ritiro degli ultimi due avversari interni hanno spianato la strada alla più sorprendente nomination repubblicana degli ultimi 50 anni. È vero che la famiglia Bush (dopo la deludente performance di Jeb fin dall’inizio delle primarie) ha deciso di restare fuori dalla campagna elettorale e che buona parte dei sostenitori di Cruz hanno seri dubbi sul pedigree religioso di Trump, in passato iscritto addirittura al Partito Democratico, pluri-divorziato e favorevole all’aborto.
Tuttavia, sembrano ormai scongiurate le possibili scissioni interne, ancora probabili fino a poche settimane fa. Nell’ultimo periodo sono arrivati al magnate newyorchese i primi timidi endorsement, – mentre per mesi i Repubblicani avevano fatto a gara a distanziarsi da Trump: anche parte dei suoi più ostinati oppositori conservatori si sono convinti che è meglio scendere a patti col nemico interno piuttosto che consegnare ancora una volta il paese ai Democratici.
I Repubblicani si avviano quindi a nominare alla Casa Bianca uno dei più eccentrici candidati di sempre, simile forse al solo Barry Goldwater del 1964 (poi sconfitto in un landslide da Lyndon Johnson), seppur quella scelta fosse ancora ascrivibile alle tradizionali categorie della politica americana.
Ma sulla strada verso la presidenza di Trump si staglia l’ostacolo del fundraising. Finora infatti la sua campagna è stata un capolavoro low-cost. Per l’intero anno di primarie, il miliardario newyorchese ha raccolto circa 60 milioni di dollari, di cui oltre 2/3 di tasca propria. Per fare un paragone, Clinton ha raccolto quasi 300 milioni di dollari, Sanders 212. Anche in casa repubblicana i conti sono molto diversi: Ted Cruz ha chiuso la sua campagna in attivo con una raccolta complessiva di circa 155 milioni, Jeb Bush poteva contare su oltre 160, Rubio quasi 125. Perfino un comprimario come Ben Carson aveva fondi per 76 milioni.
È vero che Trump ha beneficiato di una straordinaria copertura mediatica “gratuita”, frutto della sua popolarità pre-politica e delle sue strategiche “sparate” quotidiane che hanno catalizzato regolarmente l’attenzione nazionale e internazionale. Tuttavia, questo non basta nel contesto dell’elezione presidenziale vera e propria, una volta superate le primarie. Qui occorrono fiumi di denaro per gli spot elettorali, per acquistare spazi pubblicitari, organizzare migliaia di eventi sul territorio e costruire una macchina organizzativa che batta palmo a palmo il paese, o perlomeno quei 9-10 stati considerati “contendibili” e dove si giocherà l’intera elezione.
Trump si è sempre vantato di essere lontano da Wall Street, dalle lobby e dai grandi finanziatori.. Da dove arriveranno i fondi necessari? Un dato sul quale riflettere è quello delle donazioni elettorali provenienti dai cosiddetti PAC e SuperPAC, cioè quei gruppi extra-partito dietro i quali spesso si celano grandi gruppi industriali e singoli individui super-ricchi.
Finora Trump ha snobbato questo tipo di finanziatori, intenti infatti soprattutto a stopparlo in favore di altri candidati Repubblicani, convinti della sua debolezza. Da PAC e SuperPAC ha raccolto appena un milione di euro, contro i quasi 100 di Clinton. Questi avevano scommesso prima su Jeb Bush, che in pochi mesi aveva raccolto oltre 125 milioni di dollari; e dopo il suo fallimento su Ted Cruz, che aveva ricevuto quasi 65 milioni di dollari.
Da un punto di vista finanziario la campagna di Trump è finora stata quella del classico outsider, non a caso da questo punto di vista simile a quella di di Bernie Sanders. Fatto salvo l’ingente assegno staccato da Trump stesso a proprio favore, sia la sua campagna che quella di Sanders hanno dominato nei rispettivi campi nelle donazioni inferiori a 200 dollari (per Sanders addirittura l’88% dei fondi proviene da questo tipo di micro-donazioni individuali). Ma, mentre Sanders può fregiarsi dell’analogia con l’ormai mitica prima campagna presidenziale di Obama nel 2008, anche quella sostenuta da moltissime piccole donazioni, in campo repubblicano le lobby e i SuperPAC hanno sempre giocato un ruolo di primo piano nel finanziamento delle campagne elettorali.
I fratelli Koch, che nel 2012 investirono 400 milioni di dollari nell’intento di sconfiggere Obama e altri 300 in appoggio a singoli deputati e senatori repubblicani, hanno annunciato che non intendono impegnarsi nella corsa presidenziale 2016 a favore di Trump (né in appoggio a un’eventuale candidatura “terza” alternativa). Charles e David Koch controllano il secondo gruppo privato industriale americano, che spazia dal petrolio, alla chimica alle costruzioni e che nel 2015 ha fatturato circa 115 miliardi di dollari. Sono da sempre impegnati in politica, attraverso il finanziamento di candidati e iniziative affini alle loro idee ‘libertarie’: per il libero mercato, contro l’impegno dello stato in economia, contro le tasse, contro l’allargamento del welfare e contro il riconoscimento pubblico del cambiamento climatico.
All’inizio di questo ciclo elettorale avevano annunciato un investimento di quasi un miliardo di dollari e avevano subito identificato Jeb Bush come loro candidato ideale alla presidenza. Dopo il prematuro ritiro di quest’ultimo, è arrivata la decisione di stanziare “appena” 40 milioni di dollari per candidati al Senato e alla Camera e per alcuni referendum a livello statale.
Trump ha più volte stimato in 1,5 miliardi di dollari il budget ideale per la sfida presidenziale, e rispetto a una cifra del genere l’apparente ritiro dei fratelli Koch sembra ora giocare a suo sfavore. In queste settimane si sono perciò intensificati i contatti con i responsabili nazionali del Partito. L’obiettivo è quello di firmare al più presto degli accordi che permettano di avviare una raccolta fondi congiunta. Non va infatti dimenticato che Trump ha uno staff ridotto al minimo, nessun network di organizzazioni di sostegno e nessuna esperienza di raccolta fondi di queste dimensioni.
Ci sono comunque anche segnali positivi per il miliardario: American Crossroads, il superPAC guidato da Karl Rove (stratega delle vittorie di George W. Bush) non ha ancora preso una posizione ufficiale: è possibile che un ricongiungimento finale con parte dell’establishment permetta a Trump di contare su questa eccezionale macchina di consenso e finanziamento.