Sarà quasi impossibile per Joe Biden perseguire una coerente agenda legislativa con un Congresso parzialmente ostile, ma ciò non gli impedirà affatto di lavorare in politica estera con relativa autonomia.
Partiamo dalla questione russo-ucraina, che è stata impostata dall’amministrazione Biden come minaccia “sistemica” alle regole della convivenza internazionale oltre che della sicurezza europea. Qui si pone un problema transatlantico di condivisione degli oneri – di “burden sharing” nel classico linguaggio NATO. Washington continuerà a sostenere militarmente Kyiv, anche con un fondamentale apporto di intelligence oltre che di azione diplomatica, ma chiederà sempre più agli alleati europei di accollarsi i costi del versante civile, sia in senso umanitario che della futura ricostruzione oltre che delle sanzioni già in essere contro la Russia. Esiste, di conseguenza, un rischio serio di divergenza tra USA ed Europa, visto che le opinioni pubbliche del vecchio continente sono comunque stanche per le ripercussioni indirette del conflitto e angosciate per una recessione economica che da questo lato dell’Atlantico sarà quasi certamente molto dura. E’ ora fondamentale evitare recriminazioni, soprattutto in pubblico, tenendo comunque conto che Biden subirà una duplice pressione interna, sia da sinistra per la fronda interna al suo partito sia da destra per l’insistenza repubblicana sulla limitazione dei costi della guerra.
Intanto, resteranno comunque aperti i canali di dialogo bilaterali tra Washington e Mosca, come hanno ribadito più volte Antony Blinken e Jake Sullivan – negli ultimi giorni senza menzionare né Putin né il Ministro degli Esteri Lavrov, forse prefigurando la volontà di coltivare rapporti selettivi. E’ un dato importante perché consente di limitare i pericoli di errori di calcolo sul piano militare, e parallelamente di inviare messaggi diretti alla Russia, mentre sono stati riavviati i colloqui sul nucleare strategico (New START), cioè l’unico accordo del genere rimasto in vigore. In una fase in cui si parla quotidianamente di rischio nucleare, è un buon segnale.
Leggi anche: Scenari di escalation nucleare: come gestire il rischio
Va detto che una forma di dialogo con Mosca non significa certo un negoziato sulla testa degli ucraini, mentre il conflitto prosegue e le forze di Kyiv esercitano comunque una forte pressione su quelle russe lungo il fronte orientale.
Il midterm potrebbe semmai gettare una luce sinistra sulla vicenda ucraina in modo indiretto, se dovesse davvero avviarsi un’inchiesta parlamentare sul figlio del Presidente, Hunter Biden, e i suoi interessi imprenditoriali proprio in Ucraina. Ma non sembra comunque un’ipotesi in grado di alterare la linea di fondo che l’amministrazione seguirà.
Il focus della politica estera americana resterà la Cina, con l’intero impianto ormai consolidato di una strategia “indo-pacifica”. Anche qui non dovremmo aspettarci mutamenti di rotta, visto che c’è negli Stati Uniti un sostegno bipartisan anche superiore a quello sull’Ucraina.
Se il contenimento militare nei confronti di Pechino poggia essenzialmente sugli alleati asiatici, la competizione tecnologica, finanziaria e commerciale coinvolge noi europei. La soluzione ideale sarebbe uno stretto coordinamento sui prodotti hi-tech, sulle materie prime strategiche, e dunque su vari aspetti delle filiere produttive e commerciali, a cominciare da una sorta di armonizzazione dei rispettivi “Chips Act” delle due sponde dell’Atlantico. Proprio questi settori-chiave vedono però spesso le aziende americane ed europee nel ruolo di reciproci “competitor”. Di fatto, comunque, un vero “decoupling” dalla Cina non è affatto imminente né per gli USA né per la UE. Il varo del “US-EU Trade and Technology Council” a metà 2021, un po’ in sordina per la verità – dopo il fallimento del più ambizioso TTIP nel 2016 – è un passo nella giusta direzione ma è soltanto un primo passo per gestire la Repubblica Popolare in quanto fattore sistemico e globale.
Venendo all’area geografica di interesse più immediato per l‘Italia, il Mediterraneo allargato – che ormai dovrebbe includere non solo il Golfo Persico ma anche quantomeno il Sahel – è una vasta regione nella quale gli USA continueranno a perseguire interessi limitati in modo ben più selettivo e prudente che in passato. Il rapporto con L’Arabia Saudita non è certo facilitato dalla visione “idiosincratica” che Riad persegue della transizione verde – come dimostra l’ultimo vertice di “OPEC+” – e perfino la relazione con Israele sembra essere stata ridimensionata (fin dagli anni di Obama, e nonostante la parentesi di Trump) in modo non solo temporaneo. Da parte sua, l’Egitto non costituisce per Washington un alleato realmente affidabile, ma al più un partner difficile. Intanto l’Iran ha del tutto congelato ogni speranza di riavviare un dialogo sul nucleare. Tutto ciò rende in qualche modo meno rilevanti del previsto gli “Accordi di Abramo”, che l’attuale amministrazione ha ereditato e fin qui non ripudiato.
Leggi anche: L’enigma saudita e le opzioni occidentali che cambiano
In questo quadro frammentato e certo non stabile – si pensi a Paesi come Libia, Siria, Iraq, ma anche al Libano e alla stessa Algeria – spetterebbe agli europei assumere maggiori responsabilità, quantomeno in chiave di integrazione economica e cooperazione su specifici dossier di sicurezza regionale. E’ lecito aspettarsi da Biden una certa pressione perché una più coerente azione europea verso Sud sia complementare agli sforzi americani nella regione indo-pacifica, tenendo conto peraltro che le due macro-aree si incrociano lungo la costa orientale dell’Africa e negli accessi al Golfo e al Mar Rosso.
Peraltro, al momento si tende a guardare al complesso MENA-Sahel-Africa subsahariana quasi soltanto nell’ottica delle forniture energetiche e di alcune altre materie prime; è una visione insufficiente, anche in chiave transatlantica. L’Africa potrà avere, forse già nei prossimi due anni, un ruolo assai maggiore che in passato su scala realmente globale per affrontare le sfide economiche, climatiche, demografiche, sanitarie.
La gestione economica sarà comunque decisiva per le prospettive dei Democratici alle presidenziali, e ciò avrà riflessi internazionali soprattutto sulle scelte commerciali e in parte su quelle energetiche. Intanto, è ormai assodato che gli USA sono un grande esportatore di energia, soprattutto di LNG, e dunque un attore importante nella diversificazione del mix. Più ampiamente, in una fase di tassi di interesse crescenti e crescita globale molto rallentata (perfino in Cina), dovremo tutti guardarci dal rischio di una specie di “nazionalismo tecno-economico”, ricordando invece che un punto di forza delle democrazie liberali di mercato sta nella loro apertura verso gli scambi con l’esterno. Biden descrisse però la sua politica estera, due anni fa, come una “foreign policy for the middle class” (american, ovviamente): un concetto quanto mai vago che è finora rimasto tale, ma che potrebbe tornare a nuova vita in vista del voto del 2024.
L’intreccio tra politiche di sicurezza e obiettivi economici interni sarà fondamentale per gli Stati Uniti – e non soltanto per loro. Il paradosso emerso con questo midterm è che l’opposizione repubblicana è in larga misura d’accordo con la linea internazionale seguita dal presidente democratico, con buona pace delle critiche scomposte è un po’ confuse mosse da Donald Trump.