Moura, zona di Djenné, regione di Mopti, centro del Mali. Sono circa le dieci del mattino di domenica 27 marzo, ultimo giorno di mercato del bestiame prima del Ramadan, quando questa cittadina di circa 10mila abitanti, abitata in maggioranza da pastori di etnia peul, viene accerchiata dall’esercito maliano. Secondo diversi testimoni oculari, all’arrivo di almeno tre elicotteri che sorvolano il mercato, una trentina di jihadisti ingaggia uno scontro a fuoco con i militari che degenera in carneficina e in un assedio della città, che si protrae fino al 31 marzo.
“203 terroristi neutralizzati e oltre 50 arrestati” recita il comunicato ufficiale di Bamako, chiamata dalla comunità internazionale a rendere conto di quello che fin dalle prime ore si delinea come “il massacro di Moura”. Fra 150 e 500 persone giustiziate senza distinzione fra presunti jihadisti e civili, secondo le ricostruzioni pubblicate da media occidentali, organizzazioni internazionali in difesa dei diritti umani (su tutte Amnesty International e Human Rights Watch) e associazioni locali, soprattutto di origine peul. Stando a quanto da essi riportato, durante i cinque giorni di operazioni a Moura, le forze armate del Mali, coadiuvate da mercenari russi del Gruppo Wagner, si sarebbero macchiate di stupri, torture, incendi di abitazioni e motociclette, interrogatori, perquisizioni ed esecuzioni sommarie, costringendo la popolazione a scavare fosse comuni in cui bruciare pile di cadaveri. Tali crimini di guerra, qualora fossero confermati da una commissione d’inchiesta indipendente, richiesta dalla comunità internazionale, si sommerebbero alla già lunga lista di violenze arbitrarie di cui l’esercito maliano, burkinabé, nigerino e francese si sono macchiati nel corso della quasi decennale “lotta al terrore”, cioè la guerra contro le formazioni jihadiste che proliferano nel Sahel.
Moura, come gran parte del centro del Mali, è da tempo controllata da miliziani del gruppo jihadista Katiba Macina, branca del Gruppo a Sostegno dell’Islam e dei Musulmani (GSIM), fedele ad Al Qaeda nel Maghreb Islamico (AQMI). Qui come in ampie zone del Liptako-Gourma, la cosiddetta “regione delle tre frontiere”, feudo dei gruppi armati che operano a cavallo fra Mali, Burkina Faso e Niger, diverse sigle della galassia neo-jihadista saheliana impongono tasse sui commerci, scambiano beni e si presentano alle popolazioni locali, costrette a conviverci, come i paladini contro l’abbandono da parte dello stato centrale, delle Ong e della comunità internazionale.
A complicare una situazione securitaria già ampiamente compromessa da quasi un decennio di crisi multidimensionale, c’è il ritiro delle truppe francesi, annunciato a febbraio. Precedentemente ventilata come “graduale”, la chiusura dell’Operazione Barkhane nel paese è stata forzata, per tempistiche e modalità, dagli effetti della crisi diplomatica senza precedenti scoppiata fra Bamako e Parigi a seguito del doppio colpo di stato del 18 agosto 2020 e del 24 maggio 2021. Un’escalation che ha portato, il 31 gennaio scorso, all’espulsione dell’ambasciatore francese in Mali e, qualche settimana dopo, alla chiusura imposta dalla giunta alle trasmissioni di France24 e Radio France International (RFI). Il contenzioso politico verte principalmente sulla condanna da parte del governo di Emmanuel Macron del doppio colpo di stato (a fronte dell’appoggio, invece, del golpe del 20 aprile 2021 in Ciad, storico alleato francese nel Sahel), sul conseguente mancato riconoscimento dell’autorità della giunta militare come interlocutore legittimo e sulla posizione francese a favore delle sanzioni contro il Mali decise a maggio 2021 dalla massima autorità regionale, la Comunità economica degli Stati dell’Africa occidentale (Cedeao/Ecowas).
Se dal punto di vista militare il ritiro francese lascia un vuoto, questo è stato in parte colmato dall’arrivo nel paese, ufficializzato a fine dicembre 2021, di “istruttori e cooperanti militari russi”, come indicato nei comunicati ufficiali di Bamako. Parigi, con i suoi alleati (USA, Canada e vari paesi europei, fra cui l’Italia), le Nazioni Unite, le organizzazioni internazionali dei diritti umani e i media mainstream occidentali, sostengono invece si tratti di mercenari legati alla società privata di sicurezza Wagner, violenta milizia già utilizzata da Vladimir Putin in altri conflitti, come in Repubblica Centrafricana e in Sudan. Nessuna prova che possa inconfutabilmente chiarire l’effettiva provenienza dei militari russi di stanza in Mali, però, è ancora trapelata dalla loro proverbiale discrezione e dissimulazione operativa. Nessuna bandiera, insegna o simbolo visibile sulle divise, come raccontano i sopravvissuti all’attacco di Moura.
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Per far fronte al dilagare dell’insicurezza e alle insistenti richieste di soluzioni da parte della società civile, a fine dicembre le forze armate maliane hanno lanciato “Kélé-tigui” (“signore della guerra” in lingua bambara), massiccia operazione di contro-terrorismo e “pulizia” del centro-sud del paese dagli elementi jihadisti. Fin dalle prime operazioni della campagna, dal terreno cominciano ad arrivare echi della presenza di elementi russi che coordinano e affiancano l’esercito maliano.
La giunta di Bamako, guidata dal Colonnello Assimi Goïta, smentisce la presenza di mercenari, insistendo invece sul carattere “storico” della cooperazione militare (e non solo) con la Russia. Effettivamente tale asse, attivata durante la Guerra Fredda e rilanciata, dopo una lunga pausa, dagli Accordi di difesa e cooperazione militare siglati fra Russia e Mali nel 2019, negli ultimi anni ha permesso a una parte dell’élite militare africana di formarsi in Russia, stringendo rapporti con alte sfere dell’esercito e della politica del Cremlino. E’ il caso, ad esempio, di diversi quadri dell’esecutivo di Goïta, come il colonnello Sadio Camara, una delle principali menti dietro il duplice golpe. Secondo i dati forniti dalla Fondation pour la Recherche Stratégique (FRS), tali accordi ricalcano quelli rinnovati, fra il 2017 e il 2019, da Mosca con dieci paesi dell’Africa subsahariana, come Burkina Faso e Ciad, a cui si aggiungono altri dieci “nuovi” alleati, come Niger e Centrafrica.
A fronte degli scarsi risultati tangibili ottenuti durante nove anni di “lotta al terrorismo globale” e militarizzazione occidentale del Sahel, infatti, alcuni governi africani – come l’esecutivo del Mali, seguito a ruota dal nuovo regime militare del Burkina Faso – hanno deciso di prendere le distanze dall’ex madrepatria coloniale francese e di rivolgersi ad altre potenze, accelerando la ridefinizione delle sfere d’influenza in uno dei teatri attualmente più caldi e strategici dello scacchiere mondiale.
La lunga serie di golpe andati recentemente in scena in Africa occidentale – Mali, 18 agosto 2020 e 24 maggio 2021; Ciad, 20 aprile 2021; Guinea Conakry, 5 settembre 2021; Burkina Faso, 24 gennaio 2022 – ha portato alla ribalta nuovi leader più inclini al cambiamento dello status quo (richiesto a gran voce anche dalle piazze regionali, in continuo fermento), come Assimi Goïta in Mali, Mamadi Doumbouya in Guinea Conakry e Paul-Henri Sandaogo Damiba in Burkina Faso.
Il sentimento anti-francese, in crescita costante negli ultimi anni nella regione, fa da retroterra politico-ideologico all’ascesa di una nuova classe politica in gran parte formata da giovani militari cresciuti sui campi di battaglia e meno soggetti a sudditanza o timori reverenziali verso le ex-potenze coloniali, come la Francia. A livello regionale, tale inatteso susseguirsi di colpi di mano sta aprendo spazi ad attori fin qui rimasti nell’ombra. Cina e Russia, su tutti, ma anche Turchia, India, Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Iran. Partner commerciali dei paesi saheliani che diplomaticamente si presentano come alleati alternativi nella guerra al terrorismo, finora quasi monopolizzata dalle potenze occidentali, in primis USA e Francia.
L’Italia, dal canto suo, aveva da qualche mese stanziato in Mali i primi elementi dei 200 soldati delle forze speciali previsti dalla Task Force Takuba, dispositivo fortemente richiesto da Parigi agli alleati europei per coprirne il ritiro. Dopo l’annuncio della Francia dell’affrettata chiusura dell’Operazione Barkhane in Mali (da cui Takuba direttamente dipende) e il blocco all’aeroporto di Bamako del contingente danese per volere del regime militare, l’incertezza sulla sorte della missione nel Sahel prevale all’interno delle cancellerie europee. Con grande probabilità il dispiegamento italiano, come quello degli altri alleati dell’Unione Europea, seguirà i movimenti della Francia, intenzionata a mantenere un piede nella regione rafforzando la propria presenza sia in Niger (dove l’Italia ha un’altra missione militare in corso dal 2017) che in Ciad (dove nei prossimi mesi Roma inaugurerà la quinta ambasciata nel Sahel, dopo le recenti rappresentanze aperte in Guinea, Niger, Burkina Faso e Mali).
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La lotta al terrorismo di matrice jihadista, oltre a rappresentare una ghiotta occasione di riposizionamento geopolitico per gli attori in campo, è il perno su cui si gioca la sicurezza e la stabilità di una macro-regione ormai al centro degli interessi globali.
Vittime collaterali di tale “corsa al Sahel” sono le popolazioni locali che – come i morti innocenti di Bounty (località colpita il 3 gennaio 2021 da un bombardamento francese su un matrimonio) e di Moura, gli ultimi cronologicamente di una lista che in quasi dieci anni di guerra non ha mai smesso di allungarsi – attendono invano la fine di una tempesta di sabbia che non accenna a calmarsi.