Il Libano, tra Hezbollah, Israele e i venti di guerra

Alcuni analisti lo indicano da ottobre come una delle micce più infiammabili tra i paesi del Medio Oriente. Altri giornalisti lo liquidano sbrigativamente come il cortile di casa dell’Iran. Ma il Libano è un Paese che difficilmente nella sua travagliata storia si è riusciti a descrivere facendo ricorso a pochi aggettivi, è un crogiolo di questioni irrisolte che nel contesto del conflitto attuale rischiano di riemergere con virulenza.

A pesare è non solo la sua posizione geografica, al confine settentrionale di Israele e per il resto circondato dalla Siria, ma anche la debolezza dello Stato che ha nei fatti consegnato il Sud del Paese nelle mani di Hezbollah, principale milizia filo-iraniana della regione.

Una commemorazione di Hezbollah a di Beirut

 

Le notizie di cronaca descrivono un confine sempre più incandescente: nelle ultime settimane, la tensione è infatti cresciuta ulteriormente quando i miliziani di Hezbollah hanno ferito quattro soldati israeliani, colpiti all’interno del confine libanese. Per la prima volta dal 7 ottobre, Tel Aviv ha riconosciuto che le sue truppe avevano violato la sovranità libanese e poco dopo ha condotto un altro raid con il quale ha ucciso un alto grado di Hezbollah.

Nonostante la palpabile escalation dopo settimane di lanci incrociati di missili, nessuna delle parti in causa ha però interessi concreti ad entrare in una guerra totale.

Beirut non sarebbe nelle condizioni di affrontarla. Il Paese è in mano – da oltre un anno e mezzo – a un governo dimissionario che non può svolgere tutte le sue funzioni, vive nel pieno di una crisi politica che sta sgretolando l’apparato burocratico-istituzionale e alimentando la crisi finanziaria che si riflette nel continuo deprezzamento della moneta e nell’erosione dei salari. Se trascinasse il Paese in un confronto aperto con Israele, Hezbollah rischierebbe quindi di perdere consenso. La maggioranza della popolazione vuole sbarcare il lunario piuttosto che drenare risorse in un eventuale conflitto percepito come inutile e lontano dalla loro vita quotidiana.

Israele è a sua volta costretto a ponderare con attenzione ogni eventuale attacco, visto che Hezbollah, grazie anche all’esperienza acquisita nelle azioni militari per difendere il regime di Bashar al-Assad in Siria, è oggi molto più potente rispetto alla guerra del 2006. Si stimano 30 mila combattenti attivi, 20 mila riservisti, un arsenale di decine di migliaia di razzi e missili a corto, medio e lungo raggio, e una notevole capacità operativa in termini di addestramento.

Già negli ultimi anni Hezbollah ha mostrato i muscoli, stabilendo nella fascia del Libano meridionale sotto il suo controllo decine di postazioni di osservazione del confine – presidiate nominalmente da Green Without Borders, un’organizzazione non governativa ambientalista che in realtà copre le operazioni della milizia – e postazioni militari nascoste nelle valli boscose. In modo meno discreto, Hezbollah ha costruito poligoni di tiro, dove i militanti locali si esercitano a sparare con una serie di armi, dai fucili alle granate a propulsione di razzi. L’ultimo, una striscia di 100 metri scavata con i bulldozer, si trova in una valle a meno di 5 km dal quartier generale della missione delle Nazioni Unite UNIFIL2. Da ottobre ad oggi, senza aver utilizzato le armi più potenti del suo arsenale – quelle in grado di colpire in profondità lo stato ebraico – Hezbollah è già riuscita a svuotare la regione israeliana dell’alta Galilea, i cui cittadini sono fuggiti in alberghi e sistemazioni provvisorie più a sud per evitare lo stillicidio di bombardamenti quotidiani, con forti ripercussioni politiche ed economiche su Israele.

Zone militari di Hezbollah nel Sud del Libano. Fonte: Alma research center

 

La debolezza della struttura statuale del Libano è dunque evidente: il governo di Beirut non controlla di fatto le porzioni di territorio a maggioranza sciita, cioè parti della stessa capitale e la Valle della Bekaa ad est, oltre appunto alla fascia meridionale al confine con Israele. Intanto, la capacità di deterrenza esercitata da Hezbollah è in effetti un altro elemento a favore degli sforzi diplomatici intrapresi per scongiurare un conflitto aperto. Spiragli sui quali stanno lavorando soprattutto Stati Uniti e Francia che hanno presentato due proposte negoziali per una nuova intesa sul confine tra i due Paesi, sulla base della risoluzione 1701 del Consiglio di Sicurezza ONU del 2006. Questa aiutò a porre fine alla guerra aperta tra Hezbollah e Israele, sebbene da allora entrambe le parti l’abbiano più volte ignorata e violata soprattutto con il lancio di razzi.

La proposta francese prevede un’attenuazione dei combattimenti, la fine dei sorvoli israeliani sul territorio libanese, il ritiro dei combattenti di Hezbollah dal confine e il dispiegamento di circa quindicimila soldati delle Forze Armate Libanesi, in conformità con la risoluzione 1701. Inoltre, prende in considerazione la possibilità di istituire un gruppo di monitoraggio per giudicare eventuali reclami da entrambe le parti. Qualcosa di simile all’organismo composto da rappresentanti di Siria, Israele, Libano, Stati Uniti e Francia – il gruppo dei cinque – per monitorare l’implementazione – ed eventuali infrazioni – dell’accordo raggiunto tra Tel Aviv ed Hezbollah dopo il 1996 durante gli ultimi anni di occupazione del Libano meridionale da parte di Israele.

La proposta degli Stati Uniti è simile, ma si sviluppa in tre fasi: il ritiro di Hezbollah a 8-10 chilometri dal confine; un maggior dispiegamento di truppe delle forze armate libanesi a sud del fiume Litani; il ritorno alle loro case dei civili sfollati in entrambi i Paesi. Un’eventuale intesa includerebbe inoltre l’impegno a raggiungere accordi sulla delimitazione del confine tra Libano e Israele, la possibile cessazione dei sorvoli israeliani e potenziali incentivi finanziari per Beirut.

Per trovare un’intesa, entrambe le parti dovrebbero da una parte fare delle concessioni e dall’altra mostrare risultati alla propria opinione pubblica. Israele sente l’urgenza di garantire un ritorno sicuro ai circa 250 mila abitanti dell’Alta Galilea, sfollati più a Sud. Hezbollah – che insiste a legare ogni intesa a un cessate il fuoco definitivo su Gaza – potrebbe mostrarsi come la forza in grado di presidiare la prima linea contro il “nemico” israeliano, assumendo il ruolo di riserva strategica del Libano.

 

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Ciò apre però nuovamente l’annosa questione del governo centrale libanese, che appare quasi come un terzo incomodo in qualsiasi ipotesi negoziale relativa al confine tra i due Paesi. Esso infatti non ha peso per fare qualsiasi cosa, anche solo eleggere il Presidente della Repubblica. A causare questo impasse è soprattutto il criterio confessionale su cui si basa il sistema politico libanese, progettato per fornire una rappresentanza politica a tutti i 18 gruppi religiosi, a partire dai tre principali: i cristiani maroniti, i musulmani sunniti e quelli sciiti. Le elezioni parlamentari del 2022 hanno riconsegnato un Parlamento in cui nessuna forza politica ha abbastanza peso per fare qualcosa. Anche se l’alleanza guidata dal duo sciita Hezbollah-Amal – che include fazioni cristiane, armene e druse –  ha perso la maggioranza, essa rimane comunque il più ampio blocco parlamentare. Nel campo sunnita, dopo il ritiro di Saad Hariri, non è emersa una leadership alternativa, mentre ha guadagnato terreno la fazione cristiana delle Forze Libanesi.

In questo contesto, ogni accordo sul confine sembra oggi lontano, mentre è sempre più evidente che la guerra in corso nel sud del Libano ha già fatto tornare in auge lo storico settarismo che strangola il Paese. Lo mostra la reazione al rapimento e all’uccisione di Pascal Sleiman, quadro delle Forze Libanesi, partito cristiano della destra conservatrice. Il suo corpo è stato ritrovato a Homs, in Siria. Nonostante l’arresto di una decina di siriani, il leader delle Forze Libanesi Samir Geagea ha parlato di un omicidio politico, puntando il dito verso Hezbollah, il cui leader, Hassan Nasrallah, si è sentito in dovere di chiamarsi estraneo ai fatti. Le indagini proveranno a chiarire, ma il caso ha già destabilizzato ulteriormente il Paese, dove è scattata la caccia al siriano, cioè ai numerosi rifugiati siriani, con ronde di quartiere e richieste di espulsione di massa che si alimentano circolando sui social.

E’ una delle tante questioni irrisolte che torna minacciosamente in auge, facendo salire ulteriormente la tensione in un Paese che sente di vivere un equilibrio precario, sentendosi minacciato dagli imprevedibili venti di guerra sulla regione.

 

 

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